La missione in Giappone: tre parole per una Parola

La missione in Giappone: tre parole per una Parola

Nel nuovo volume dedicato al Giappone edito da La Civiltà Cattolica, uno scritto racconta com’è cambiata l’attività missionaria, dalle origini fino alle sfide odierne dettate dalla secolarizzazione

 

In vista dell’ormai imminente viaggio di Papa Francesco in Giappone la rivista Civiltà Cattolica, ha pubblicato online il decimo volume di “Accènti” il quaderno monografico che approfondisce un determinato tema a partire da una raccolta ragionata degli articoli pubblicati nella sua storia dalla rivista dei gesuiti. In questo caso l’accènto viene posto ovviamente proprio sul Giappone, attraverso una serie di saggi scritti dal 1942 sull’affascinante ed enigmatico Paese del Sol Levante. Le sezioni che compongono il volume spaziano dalla politica al cinema, dall’architettura alla letteratura e ovviamente non mancano i racconti del rapporto insieme contrastato e aperto (secondo i canoni delle culture asiatiche) tra la Chiesa cattolica e la società giapponese.

Uno degli scritti più interessanti è quello di Shun’ichi Takayanagi – gesuita, docente di letteratura alla Sophia University di Tokyo – che riflette su come sia cambiato il concetto di missione in Giappone nel corso degli anni. Si tratta di una riflessione che parte proprio dalle parole che in giapponese traducono il concetto di attività missionaria. La lingua giapponese moderna offre infatti tre possibilità, con sfumature leggermente diverse, per descrivere la missione: dendō (insegnare la via), fukyō (diffondere la verità) e senkyō (annunciare la verità). Se il primo è stato in origine utilizzato soprattutto dai missionari protestanti, gli altri due hanno subito un’evoluzione nel corso dei decenni.

I cattolici usavano prevalentemente senkyō, mentre fukyō ha cominciato ad essere utilizzato dopo la Seconda guerra mondiale e si è diffuso sempre più dopo il Concilio Vaticano II. Questo cambio di paradigma è probabilmente dovuto al fatto che senkyō restava legato «all’attività missionaria esercitata da missionari stranieri che erano giunti nel Paese, mentre il ‘fu’ di fukyō resta aperto a nuove forme di attività missionaria. E dal momento che questo termine viene usato anche in altre Chiese cristiane, si vuole favorire così un riavvicinamento ecumenico tra le varie confessioni e denominazioni cristiane», scrive Shun’ichi Takayanagi.

Dal Concilio Vaticano II è lo stesso concetto di missione com’era universalmente inteso nel mondo cattolico ad assumere delle sfumature nuove, grazie alla diffusione di altre due terminologie, quella di “pre-evangelizzazione” e quella di “inculturazione”, le quali si rifanno entrambe all’idea di adattare gli insegnamenti cristiani agli usi, al pensiero e alla cultura locale. Tutti concetti che però in Asia hanno una lunga storia: vi aveva già riflettuto a lungo Alessandro Vagliano nei suoi viaggi alle origini dell’attività missionaria dei gesuiti nel XVI secolo.

Tuttavia soprattutto la parola “inculturazione”, se mal tradotta «può indurre a un’idea distorta di missione, come se il contenuto della rivelazione non fosse importante e la nostra fede potesse venire assorbita completamente da una cultura indigena, per cui alla fine quel che rimane è solo una religione indigena». La necessità a cui si deve far fronte è invece quella di inserire la fede nel contesto specifico di ogni Paese. E per questo ci vengono in aiuto i Padri della Chiesa, che avevano immaginato i semi del Logos divino come dei granelli già presenti nel mondo, i quali hanno la possibilità germogliare e fiorire grazie all’annuncio della fede.

Nel post-Concilio si parla quindi di «annuncio della Parola», inteso non come una mera «consegna del messaggio» ma come un’elaborata attività in cui la Parola si inserisce nella società e dialoga costantemente per comprendere «lo spirito, la cultura, la storia e le preoccupazioni di un popolo».

E il dialogo è stato proprio il mezzo privilegiato in Giappone per dare nuova linfa vitale alla missione e «impiantare più a fondo la Parola». Ma il dialogo è anche la maniera più efficace far luce su quei temi cari alle popolazioni, per esempio, nel caso del Giappone, quello “delle risorse e dell’ambiente sul quale possiamo imparare molto da un gran numero di colleghi buddisti e scintoisti”.

Nel nostro tempo la missione deve sempre più “diventare espressione del bisogno di religione degli uomini di oggi”. E per farlo non si può prescindere dal contesto di secolarizzazione del Giappone odierno. Se in generale quando parliamo di “secolarizzazione” ci viene in mente la “libera società individualistica di oggi, nella quale ognuno può operare le proprie scelte senza doversi preoccupare di norme religiose”, nel caso del Giappone il contesto è un po’ diverso perché qui la “laicité” non ha attecchito come ci aspetteremmo.

In Giappone il “mercato delle religioni” è accessibile a tutti, e questo può provocare confusione nel visitatore cristiano occidentale che vede uno stesso giapponese prendere parte a festività buddiste e poi alla celebrazione di Natale. In un contesto culturale non monoteista infatti, seguire un solo credo religioso appare strano. In più le proposte della Chiesa devono fare i conti anche con altri prodotti sul “mercato” di oggi, soprattutto a livello di offerte di attività rivolte ai giovani. Ma in Giappone la flessibilità nel passare da un credo all’altro non esprime «indifferenza superficiale né manifestano un sentimento anti-religioso, laicista»; al contrario, sono sintomi di un bisogno religioso inteso in senso ampio e di una “stima per la religione” che probabilmente non ha eguali nel mondo.

Infine, nell’ultima parte dello scritto l’autore ammette che, sebbene “i giapponesi di oggi non provino alcuna difficoltà di fronte al pluralismo religioso”, restano tuttavia estremamente impressionati da episodi violenti che nascono da motivazioni religiose. L’attività missionaria non può non riflettere sui rischi del fanatismo che scaturiscono nell’appartenere a una confessione religiosa. «Il cristianesimo è in grado di impedire il fanatismo e questa sorta di perversione?», si chiede Shun’ichi Takayanagi. Una domanda cruciale in un contesto in cui alcuni intellettuali giapponesi si sono addirittura interrogati sulla possibilità per le religioni monoteiste di essere veramente tolleranti verso i membri di altre religioni.

L’autore conclude richiamando la necessità di recuperare questa dimensione di dialogo nel cristianesimo facendo spazio anche alle altre religioni, conmpreso l’islam, che fino a mezzo secolo fa era assente in Giappone. «Noi cristiani dobbiamo aprire il nostro orizzonte religioso per favorire la pace tra le religioni – in quanto essa è parte essenziale dell’evangelizzazione -, potenziando il dialogo mentre annunciamo la Parola. Perché il Verbo si è fatto carne ed è venuto in questo mondo, per impegnarsi in un dialogo con tutta l’umanità».