L’India profonda di padre Orlando

L’India profonda di padre Orlando

Da un villaggio all’altro, aprendo nuove comunità fra i tribali. Dopo quasi cinquant’anni, padre Quintabà è sempre pronto a ripartire per andare da chi non ha mai sentito parlare di Gesù

A furia di spingersi all’interno della foresta, è arrivato nel posto più sperduto della diocesi di Khammam. E anche da lì ha trovato il modo di guardare più lontano. Di frontiere ne ha conosciute davvero tante padre Orlando Quintabà, missionario del Pime in India da ormai quasi cinquant’anni. Missionario con il carisma – antico e sempre nuovo – di aprire strade inesplorate tra quanti ancora non hanno sentito parlare di Gesù.

Marchigiano, classe 1938, padre Orlando aveva preso il diploma di ragioniere a Civitanova Marche. «Avrei potuto lavorare in banca o in Comune – racconta -, ma un giorno su una rivista missionaria ho letto un appello ai giovani con la frase evangelica: “Se vuoi essere perfetto va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”…». E lui continua ad eseguire alla lettera.

Fu il parroco a indirizzarlo ai missionari del Pime; per l’India è partito nel 1969, e da allora vi è sempre rimasto. Quarantasette anni scanditi dallo stesso stile: fondare nuove comunità nella foresta, nei villaggi più sperduti. E una volta avviate lasciarle alla diocesi, per spingersi in posti ancora più lontani, non raggiunti ancora da nessun missionario. La prima destinazione fu il villaggio di Vissannapeta, nella diocesi di Vijayawada, accanto a padre Mario Fumagalli. Fu l’apprendistato della lingua telugu e delle visite alle tante comunità, nei singoli villaggi. Poi sarebbe stata la volta di Tadepalligudem, Ramanakkapeta, Chinthakani, Allepally… tutti villaggi dove padre Orlando è stato il primo missionario nel territorio di quella che dal 1993 è diventata la diocesi di Khammam. Territori dove gran parte della popolazione tuttora è tribale e vive nelle foreste; i più abbandonati e dimenticati da tutti, sono ancora più discriminatidei fuori casta. Genti tra le quali il seme del Vangelo continua a portare frutto. «Ma quando in un posto ha battezzato qualcuno, il missionario dovrebbero sempre spostarsi altrove – riassume la sua filosofia padre Quintabà -. Lo raccontano gli Atti degli Apostoli: loro non si fermavano mai in un posto. Ed è un metodo che vale per ogni tempo…».

Ricominciare sempre da zero in un nuovo villaggio, dunque; con qualche punto fermo, però, suggerito dalle esperienze: «Quando ero a Ramanakkapeta, alla fine degli anni Ottanta – racconta padre Orlando -, ho visto una collina isolata e mi sono detto: lì dobbiamo far nascere un santuario mariano. E così abbiamo fatto: è diventato un luogo di pellegrinaggio, la gente sale 250 scalini per visitarlo. Ed è un metodo che poi ho sempre seguito: in ogni nuova comunità per prima cosa apro l’ostello per i ragazzi. Ma accanto a quello anche un santuario, con uno spazio aperto, un giardino, dove organizzare feste e pellegrinaggi. Sono occasioni in cui dal villaggio vengono tutti, vogliono vedere come prega un cristiano. E magari ti dicono: padre, perché non vieni a predicare anche nel mio villaggio?».

Dal 2009 l’ultimo avamposto di padre Quintabà si chiama Venkatapuram, a oltre duecento chilometri da Eluru, il cuore della presenza del Pime in India. Una zona poverissima, dove nella foresta è forte la presenza dei naxaliti, la guerriglia maoista che nell’India meridionale dagli anni Settanta combatte una guerra senza fine contro l’esercito indiano. «Venkatapuram è una zona un po’ difficile, un posto un po’ caldo… – conferma padre Orlando -. I maoisti un po’ di tempo fa hanno fatto saltare in aria il centro amministrativo, c’è sempre polizia in giro. In sette anni di battesimi ne ho fatti pochi, ma si predica comunque il Vangelo. Sono il primo prete che abbiano mai visto. Quando sono arrivato ho comprato un pezzo di terra, vi ho costruito una piccola chiesa e una casa dove da due anni sono arrivate anche le Missionarie dell’Immacolata. Sul tetto della chiesa ho messo tre altoparlanti: ogni mattina alle 5.30 prego, canto, leggo la Bibbia. E non c’è nessuno che protesta…».

Anche da Venkatapuram padre Quintabà non ha comunque smesso di guardare oltre. E la nuova frontiera l’ha già trovata, cinque chilometri più in là nella foresta: «Si chiama Wajeed ed è l’ultima località del distretto di Khammam – spiega -: c’è un grande ponte sul fiume Godavari, attraverso il quale si va nel distretto di Warangal. Anche lì ho comprato un pezzo di terra dove ho costruito un piccolissimo edificio dentro al quale – insieme al letto, al bagno, alla cucina -, c’è un altare con davanti una veranda. Con le suore di tanto in tanto ci andiamo e si è formata una piccola comunità». Come appare l’India di oggi, con le sue ambizioni di potenza economica, se la si guarda dai suoi villaggi? «Da noi manca ancora tutto: i servizi sanitari, l’accesso all’acqua potabile – risponde -. Mandano i soldi da New Delhi, miliardi di rupie, ma si perdono per strada nei mille rivoli della corruzione. Un’altra piaga tristemente diffusa, poi, è quella dell’alcolismo tra gli uomini».

Quanto al nazionalismo indù «l’Rss (il movimento radicale che propaga l’ideologia dell’hindutva ndr) cerca di penetrare anche nei nostri territori – continua padre Orlando -. Dicono di voler “riconvertire” i tribali, per “riportarli” all’induismo anche se indù non lo sono mai stati. Noi non siamo lì per fare proselitismo; non convertiamo nessuno con l’inganno o con la forza. Ma la Costituzione indiana riconosce la libertà di professare ogni religione; e quindi – per chi lo desidera – deve esserci anche la libertà di accoglierla». Proprio i nuovi malumori sulla presenza dei missionari hanno portato dall’autunno scorso padre Quintabà in Italia (dove non tornava dal 1987, quando morì sua madre). «Da New Delhi mi hanno rifiutato l’estensione del visto – spiega -. È venuta la polizia locale a dirmi: devi tornare in Italia, chiedi il visto da lì e te lo daranno. Alla fine, d’accordo con il vescovo, sono rientrato». È stata l’occasione anche per qualche controllo alla salute; ma lui, a settantotto anni compiuti, non vede lo stesso l’ora che arrivi il via libera promesso per tornare ai suoi villaggi di frontiera.