Mekong, il prezzo delle dighe

Mekong, il prezzo delle dighe

Undici grandi impianti idroelettrici e 120 dighe minori in cantiere da qui al 2040. Ma come effetto collaterale si teme una drastica riduzione della produttività agricola e della sicurezza alimentare, oltre che un aumento dei livelli di povertà in un’area abitata da novanta milioni di persone

 

Il Terzo Vertice della Commissione per il fiume Mekong che si è riunito il 5 aprile nella città cambogiana di Siem Reap, prossima alle stupefacenti rovine di Angkok (centro di una civiltà che al grande fiume e alle sue variazioni stagionali ha dovuto molto negli oltre 600 anni di splendore) ha evidenziato la difficoltà di determinare costi e benefici delle infrastrutture esistenti o pianificate sul corso del fiume, in particolare gli sbarramenti idroelettrici.

Studi affidati a un apposito Consiglio regionale hanno evidenziato che gli undici impianti maggiori sul basso corso del fiume e le 120 dighe minori che saranno completati entro il 2040 pongono una minaccia concreta all’equilibrio ecologico e alla vitalità economica della regione. I principali effetti negativi dovuti agli impianti in funzione o prossimi all’avvio, produrranno a loro volta conseguenze sulla disponibilità di acqua, energia e cibo. Tra queste, si stima un calo del 30-40 per cento nell’industria ittica, con la perdita di un milione di tonnellate di prodotto all’anno e una sorprendente riduzione del 97 per cento nella quantità di sedimenti che raggiungono il delta del fiume. Come risultato prevedibile ci saranno una drastica riduzione della produttività agricola e della sicurezza alimentare, oltre che un aumento dei livelli di povertà e una vulnerabilità più accentuata verso i cambiamenti climatici sulla maggior parte del Basso Bacino del Mekong.

Preoccupazioni apertamente richiamate recentemente in occasione della Giornata mondiale dell’Acqua dalla Coalizione per salvare il Mekong, insieme a partner della società civile e delle comunità rivierasche di Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam. “Siamo estremamente preoccupati per i progetti di grandi impianti idroelettrici che non tengono in considerazione le conoscenze, le culture e le voci delle popolazioni del Bacino del Mekong le cui condizioni di vita e credenze sono connesse profondamente con il fiume”, ha segnalato la Coalizione.

Il Mekong è uno dei fiumi più lunghi al mondo con i suoi 4.800 chilometri dall’altopiano tibetano al mare. Il suo bacino è esteso per quasi 800mila chilometri quadrati in sei Paesi, per il 25 per cento in Cina. Novanta milioni di persone gravitano per la loro vita sul corso d’acqua e sui suoi affluenti. Una popolazione mediamente povera, con un terzo che dispone di meno di due dollari al giorno per la propria sopravvivenza. Si ritiene che la metà dei centri abitati attorno al fiume non dispongano di vie d’accesso permanenti. Di conseguenza, le risorse disponibili dentro e attorno al suo corso per molti non hanno alternative.

Per questo, ancor più rilievo acquista la necessità che esse siano coinvolte nei processi decisionali, ma i progetti finora attuati o in via di attuazione non hanno certo brillato per partecipazione, trasparenza e riconoscimento delle responsabilità.

I due maggiori – le dighe di Xayaburi e Don Sahong, entrambe in via di completamento in Laos – sono stati imposti sulle comunità locali, senza che venissero specificate, ad esempio, in quale modo si garantirà il passaggio della fauna ittica e si eviteranno così la devastazione della pesca e conseguenze diffuse sull’ecosistema fluviale. Nonostante le forti pressioni locali e internazionali manca una visione complessiva dell’impatto delle dighe sull’intero bacino e non sono pochi coloro che mettono pure in discussione i presunti benefici derivanti da una maggiore produzione energetica di provenienza idroelettrica, mentre le tendenze globali vanno verso una decentralizzazione delle tecnologie produttive nel settore, con costi competitivi con quelle tradizionali ma di minore impatto ambientale.