Myanmar sorella coraggio

Myanmar sorella coraggio

Si è messa in ginocchio di fronte ai soldati, diventando un simbolo della protesta pacifica contro il regime militare responsabile del golpe. Ora la storia di suor Ann Rose è diventata anche un libro che oggi arriva in libreria

 

L’hanno intervistata agenzie e testate di vari Paesi. Ma Ann Rose Nu Tawng, 44 anni, suora di San Francesco Saverio, non ambisce a trasformarsi in star, sebbene dal 28 febbraio sia diventata virale sul web la foto di lei che, disarmata, affronta un plotone di militari. Una scena che si è ripetuta l’8 marzo, quando di nuovo “sorella coraggio” ha sfidato a mani giunte i soldati. Per conoscerla più da vicino e scoprire la sua fede, arriva oggi in  libreria per i tipi di Emi, un libro-intervista, a cura di Gerolamo Fazzini, “Uccidete me, non la gente” (pp. 80, 10 euro), corredato di un inserto fotografico e con la prefazione del cardinale Matteo Zuppi. Ne anticipiamo alcuni stralci.

Nata in un villaggio del Nord, al confine tra gli Stati Shan e Kachin, quinta di 13 figli, suor Ann Rose lavora come infermiera nella clinica diocesana di Myitkyina.

Suor Ann Rose, ci parli delle sue radici.

«Il Myanmar è un Paese a larga maggioranza di religione buddhista, ma la mia è una famiglia cattolica. Papà non era battezzato, lo è diventato grazie al matrimonio. Mia mamma è cresciuta nella fede grazie ad alcune suore della mia congregazione e della Ripara­zione. I miei genitori sono stati per alcuni anni entrambi insegnanti, poi mamma ha smesso. Papà, a sua volta, è diventato capo-catechista e si è dedicato a tempo pieno all’evangelizzazione dei villaggi della nostra zona».

Cosa ricorda della sua infanzia?

«Fin da piccoli abbiamo sperimentato sulla nostra pelle la violenza del conflitto tra militari e popolo kachin. Nel nostro villaggio, i soldati venivano di notte a prelevare i giovani per reclutarli a forza nell’esercito. Vivevamo in un clima di paura. Quando i soldati facevano irruzione nel nostro villaggio scappavamo; ci toccava abbandonare gli animali, che diventavano facile preda dei militari».

La sua è la prima congregazione religiosa ad essere nata in Myanmar…

«Siamo state fondate nel 1897 da un vescovo francese delle Missioni estere di Parigi (MEP). Ci stanno a cuore l’educazione alla fede degli adulti e dei bambini, la cura degli ultimi (orfani, ammalati e anziani), la formazione degli studenti (bambini e ragazzi). Attualmente siamo 454 religiose, attive in 13 delle 16 diocesi del Myanmar. Abbiamo anche presenze negli Stati Uniti, in Italia, in Thailandia e nelle Filippine».

Contenta di essere suora?

«Sì. Anche se nel quotidiano, accanto a tante gioie, incontro molte difficoltà, che cerco di affrontare con l’aiuto del Signore. Nel primo periodo della mia vita religiosa ho operato a Pathein, una città del Sud dove la nostra congregazione ha il suo quartier generale: lì, nel 2008, abbiamo vissuto la tragedia dell’uragano Nargis, che ha provocato la morte di migliaia di persone. Succes­sivamente ho lavorato in un centro vicino a Myitkyina, destinato all’accoglienza di orfani e rifugiati».

Cos’è cambiato nella sua vita dal 1° febbraio, giorno del colpo di Stato, a oggi?

«Quando ho saputo del colpo di Stato, mi sono sentita assalire dalla disperazione, dalla sensazione di sprofondare in un buio passato».

C’è qualcosa di nuovo, stavolta, rispetto alle precedenti proteste?

«In Myanmar tanta gente si sta ribellando: sono scesi in piazza i giovani, gli studenti, ma anche tanti lavoratori di diverse categorie: impiegati statali, medici, insegnanti… Un fatto nuovo, molto importante».

Ha fatto il giro del mondo la notizia dell’uccisione di Kyal Sin, una ragazza di 19 anni.

«I giovani sono sempre in prima linea nelle proteste, affrontano i militari, i lacrimogeni e i proiettili. Sanno che se la protesta non arriverà a buon fine si tornerà al passato. Per questo sono pronti a offrire la vita, per dare un futuro migliore al loro Paese. Li ammiro e li ricordo spesso al Signore».

Come ha trovato il coraggio di affrontare, disarmata, per due volte, un plotone di uomini con in mano i fucili?

«Credo che Dio si sia servito di me, lo Spirito Santo mi ha dato la forza. Le persone che scendono in strada per protestare sono il tesoro del Paese. La polizia e i soldati ne hanno uccise molte e ciò rappresenta una grave perdita. Questo non sarà mai un Paese democratico finché poliziotti e soldati, che dovrebbero proteggere le persone, le ammazzano».

Come si sente vedendo le scene di violenza di cui sono protagonisti i militari?

«Io appartengo al popolo del Myanmar e provo gli stessi sentimenti della gente: mi sento triste. Non voglio rimanere ancora sotto la pressione dei militari e non voglio questo futuro nemmeno per i nostri giovani».

Che cosa chiede al Signore per il Myanmar?

«Da quando la Giunta militare ha preso il potere, nel 1962, il nostro Paese ha fatto molti passi indietro dal punto di vista sociale, educativo ed economico, ma i governanti hanno cercato di farci credere che il Myanmar andasse meglio. Non vogliamo che questo riaccada di nuovo».

Come si può uscire da questa situazione?

«La violenza deve finire, i capi religiosi e politici dovrebbero incontrarsi e dialogare. Credo che il dialogo e il perdono reciproco siano alla base di un Paese felice e democratico. Mi affido a Dio perché ci guidi Lui».

Il 17 marzo il Papa ha detto: «Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar e dico: cessi la violenza». Come ha reagito?

«Questo sentimento di condivisione del Papa ci ha colpito e rafforzato. Perciò anch’io chiedo: continuate a pregare per il nostro Paese e ad aiutarci, ne abbiamo molto bisogno!».

Spesso abbiamo visto scendere in strada anche preti, seminaristi, suore e fedeli laici. Questo può contribuire a fare sentire la Chiesa vicina al popolo, specie in un Paese in maggioranza buddhista?

«Sì. Tanti hanno capito che siamo in profonda unità col popolo, che sentiamo il dolore della gente, come fratelli e come cittadini, membri di una sola famiglia. Noi stiamo vivendo tutto questo come una missione: vogliamo essere “Chiesa in uscita”. Non sarà facile vincere. Ma la speranza è l’ultima a morire».

(Ha collaborato suor Margaret Htu Hkawng)