Rohingya, Aung San Suu Kiy tra due fuochi

Rohingya, Aung San Suu Kiy tra due fuochi

Tra le critiche dei premi Nobel e le accuse di debolezza avanzate dall’opposizione, in Myanmar si fa sempre più difficile la situazione della minoranza musulmana dello Stato occidentale di Rakhine. E si teme che questo dramma irrisolto possa alimentare la radicalizzazione islamista

 

La vicenda dei Rohingya, sottoposti a una nuova ondata persecutoria in Myanmar, si aggrava e, nell’incapacità di una soluzione equa, si estendono le conseguenze sul piano interno e diplomatico.

Mentre è in corso la visita dell’inviato Onu per analizzare la situazione – con l’eccezionale permesso concesso per visitare le aree dello Stato occidentale di Rakhine al centro delle tensioni tra buddhisti e musulmani e, tra questi, con la minoranza di etnia rohingya –  l’impegno di Aung San Suu Kiy e del suo consulente speciale, l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, sembra vanificato da una realtà insieme sempre più difficile e più complessa.

Dopo la presa di posizione di 21 premi Nobel, che il 29 dicembre le hanno indirizzato una lettera aperta denunciandone il silenzio che contrasta con gli ideali sostenuti nei lunghi anni di impegno per la democrazia e la lotta nonviolenta nel suo Paese, ora tocca all’opposizione accusare Aung San Suu Kyi di debolezza verso i musulmani e verso la comunità internazionale. Una opposizione che, va ricordato, si appoggia su interessi economici, nazionalismo e militari e che alimenta il rischio di una restaurazione proprio mentre sembrava bene avviato il dialogo tra governo e forze armate per sciogliere il nodo di una loro imbarazzante quanto pesante influenza sul Paese a cinque anni dalla fine formale del loro potere indiscusso.

Sul piano diplomatico, se è stato sospeso l’invio da parte malese di una flottiglia con soccorsi per i Rohingya motivata dalla solidarietà islamica, restano tesi i rapporti tra Kuala Lumpur (e altri Paesi musulmani della regione) e il governo birmano. Una tensione e pressioni che nascono anche dall’allarme lanciato dagli stessi governi islamici secondo cui il Myanmar potrebbe diventare focolaio di radicalizzazione islamista incentivata dalla repressione e centrale del jihadismo internazionale.

Una preoccupazione condivisa dal confinante Bangladesh, dove si sono rifugiati almeno 65mila Rohingya nelle ultime settimane che si aggiungono agli altri 250-300mila presenti da molti anni. Dhaka ha chiesto a Naypiydaw di riprendersi indietro i profughi, scontrandosi ancora una volta con la tesi birmana secondo cui i Rohingya sono nei fatti immigrati illegali dal Bangladesh (quando ancora questo non esisteva come Stato indipendente, prima del 1971) e a loro nessuna cittadinanza e nessun diritto devono essere garantiti in Myanmar.

Un nodo sempre più stretto di problematiche si stringe quindi attorno alla sorte dei Rohingya. Una sorte che ha un suo simbolo in Mohammed Shohayet, il piccolo di 16 mesi la cui foto nel fango – ucciso il 3 dicembre per annegamento come i suoi familiari dopo il naufragio della barca su cui cercavano di attraversare il fiume Naf e approdare in Bangladesh – è stata rilanciata dalla Cnn a un mese dalla morte. Un’immagine pietosa che ha ricordato al mondo quella di Aylan Kurdi, il bimbo siriano annegato durante una traversata della speranza verso la Grecia e ritrovato su una spiaggia turca. Due immagini-simbolo di realtà drammatiche: la prima alimentata da un conflitto di ampia risonanza mediatica, la seconda dalla smemoratezza del mondo verso i Rohingya.