Dalla Cina a Portland un messaggio sui campi di lavori forzati

Dalla Cina a Portland un messaggio sui campi di lavori forzati

Una lettera viene ritrovata da una donna dell’Oregon all’interno di una confezione di decorazioni per Halloween: si tratta della disperata richiesta d’aiuto di un prigioniero politico cinese nel campo di lavoro di Masanjia, nel nord est del Paese, che scrive per denunciare le torture subite. È la storia vera raccontata dai protagonisti nel recente documentario Letter from Masanjia

 

Un episodio di cronaca, una finestra sulla Cina, un appello per i diritti umani: è tutto questo Letter from Masanjia, documentario girato dal giovane regista in esilio Leon Lee per raccontare la storia del connazionale Sun Yi, prigioniero del più famoso campo di lavoro della Repubblica Popolare Cinese. Escluso dagli Oscar poche settimane fa nell’ultima fase di selezione, il film non ha per questo perso il suo valore documentario e, anzi, è da poco approdato sulla popolare piattaforma di streaming Prime Video (per ora solo nella versione US). A dispetto del canale di diffusione scelto, però, i contenuti sono tutt’altro che d’intrattenimento.

Letter from Masanjia si apre infatti con Julia Keith, una donna residente a Portland, nello Stato americano dell’Oregon, che scarta una decorazione per Halloween comprata qualche tempo prima al supermercato, trovandoci all’interno una lettera. «Capita a una persona su un milione di ricevere un messaggio nella bottiglia – spiega la donna davanti alla telecamera – È successo a me e mi ha cambiato la vita». Già, perché – benché scritta in inglese – la lettera ritrovata era firmata da un cittadino cinese recluso nel campo di lavoro di Masanjia, nel nord est del Paese, e recitava: «Signore, se per caso ha comprato questo prodotto, per favore sia così gentile da inviare questa lettera all’organizzazione mondiale per i diritti umani. Migliaia di persone perseguitate dal governo del partito comunista cinese la ringrazieranno e ricorderanno per sempre. Questo prodotto è stato creato dall’unità 8, secondo dipartimento del campo di lavoro».

Contattate alcune ong ma non avendo ottenuto risposta, Julia decide di far uscire la notizia sul quotidiano dello stato dell’Oregon. È un volano: in pochi giorni la storia viene ripresa da media del calibro di Cnn e New York Times e fa il giro del mondo. Siamo nel dicembre del 2012 e la scelta di Julia – che ancora non conosce nome e cognome di chi sta dietro a quel messaggio – accende i riflettori sulle condizioni dei campi di lavoro in Cina introdotti nel 1957 da una circolare del Consiglio di Stato e adoperati come centri di «rieducazione» in cui possono essere imprigionati fino a quattro anni senza un processo piccoli criminali, persone sgradite al regime nonché dissidenti a livello politico e religioso (compresi membri della Chiesa cristiana non ufficiale). Si moltiplicano i reportage sia di media internazionali sia cinesi che raccontano le condizioni di vita nei campi ed emerge una situazione sconcertante con turni di lavoro di 15 ore, torture fisiche e violenze psicologiche. Nel 2013, quando i 320 campi di rieducazione attraverso il lavoro (anche noti come laojiao) sono aboliti a seguito delle pressioni internazionali, 160mila persone vengono rimesse in libertà.

Dal campo di Masanjia Sun Yi era uscito però nel 2010 dopo due anni e mezzo di reclusione, durante i quali era stato impiegato nella realizzazione di finti sepolcri da esportare e vendere come decorazioni di Halloween. Sun Yi – come molti dei reclusi di Masanjia – era un seguace del Falun Gong, una pratica di spiritualità simile allo yoga che si è diffusa in Cina dal 1997 arrivando a contare in poco tempo 100 milioni di praticanti nell’intero paese: un numero enorme e potenzialmente pericoloso per il partito governativo. È per questo che il Falun Gong entra nel mirino delle autorità e dal 1999 viene messo in atto un vero e proprio boicottaggio nei confronti degli aderenti, che comprende campagne di contro propaganda e incentivi economici a chi denuncia i praticanti. È in questo contesto, dunque, che – per reagire ai turni massacranti e alle torture che subisce nel campo di lavoro – Sun Yi decide di scrivere decine di lettere e di nasconderle insieme ai prodotti confezionati per cercare di far arrivare il suo appello in Occidente. E in effetti – anche se con anni di ritardo – il messaggio arriva in Oregon nelle mani di Julia, che lo farà conoscere al mondo.

 

«Questo è stato il film più difficile che io abbia mai realizzato finora – ha dichiarato il regista Leon Lee – Non solo non potevo andare in Cina a causa dei film prodotti in precedenza, ma il protagonista, Sun Yi non sapeva come usare la telecamera. Siamo riusciti a portare a termine il progetto principalmente via Skype. Ma in realtà è stato il coraggio di quest’uomo, la sua determinazione, a rendere possibile questo film». Il documentario è stato integrato dalle animazioni dello stesso Sun Yu che ha raccontato con disegni le torture da lui subite a Masanjia.

Ma quello che ha passato il protagonista della storia lo racconta meglio di tutti un suo ex carceriere, il quale è stato rintracciato per il documentario e ha spiegato: «Quello che ha sofferto Sun Yi si vede solo nei film di guerra in cui i giapponesi torturano i cinesi. Oggi i cinesi torturano i cinesi e questo accade nella vita vera». Nonostante il campo di lavoro di Masanjia sia stato ufficialmente abolito, infatti, il sospetto di organizzazioni internazionali e media è che i campi di lavoro siano stati rinominati e riconvertiti a scopi simili. «Voglio dire al mondo – conclude d’altronde Sun Yi nel documentario con un breve clip girato sul balcone del suo ultimo rifugio, in Indonesia – che milioni di persone in Cina sono ancora perseguitate ma alla fine sul male prevarrà la giustizia».

In foto un fermo immagine del film Letter from Masanjia