AL DI LA’ DEL MEKONG
Vite semplici

Vite semplici

«Il buddismo in Cambogia non gode di buona salute. È difficile oggi essere monaci, esserlo in modo autentico, perché espone ad una precarietà di vita che in questo mondo moderno diventa sempre più insostenibile, per certi aspetti anacronistica. Eppure, proprio perché sono cristiano, considero “valore” il Dharma e tutte le pratiche dei monaci»

 

Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi (…)
”.(Erri De Luca)

 

Tempo fa un papà non cristiano che lavora da noi è venuto a chiedermi del denaro. A breve avrebbe ricevuto il salario ma quella volta non era riuscito ad arrivare a fine mese e mi chiedeva un anticipo. Ne aveva bisogno per i suoi sei figli. Mi ha chiesto l’equivalente di 15 dollari americani e mi ha detto che gli sarebbero bastati per il cibo dei successivi quattro giorni, tanto mancava alla consegna della busta paga. “Per tutti e sei?” – gli ho chiesto, senza contare lui e la moglie. “Si – mi ha risposto – perché io mangio qui alla chiesa”. Non è stato un problema aiutarlo anzi, ho esagerato con l’equivalente in moneta locale di 20 dollari! Molte persone mi aiutano perché io a mia volta possa aiutare. E cerco di farlo lasciandomi provocare dalla vicenda semplice e spesso insignificante delle persone che vengono a chiedere. “Considero valore tutte le ferite”, scrive Erri De Luca, come se in quelle vicende umane, aggiungo io, Dio mi voglia rivelare ciò che vale e ciò che non vale. Pensando a quel papà, continuo a leggere i versi di De Luca e “considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe” o, ancora, “considero valore quello che domani non varrà più niente / e quello che oggi vale ancora poco”.[1] Io che non ho figli a carico anche se a volte ne vorrei. Per udire la voce del mio sangue.

È pur vero che attraverso le attività della missione aiutiamo molti ragazzi/e a studiare, stiamo costruendo una scuola media e spesso ci facciamo carico di quei malati che non hanno a sufficienza per curarsi, ma tutto questo non è esattamente come avere dei figli propri. C’è sempre una piccola, impercettibile distanza che provo a colmare con la fede. È altrettanto vero poi che la mia vita è diversa, ho delle agevolazioni, delle sicurezze che quel papà non potrebbe mai avere, non perché non le voglia, ma perché non se le potrebbe permettere. Nella sua indigenza e precarietà, quel papà a sua insaputa mi spinge verso una condivisione più profonda della vita e della fede, e mi chiedo se mi trovo dove e come il Signore mi vuole, o se anch’io “amo i miei poveri come le vecchie inglesi amano i gatti sperduti”?[2]

Ieri chiacchierando con Sim, buddista e giovane professore di lingua e letteratura Khmer presso la nostra scuola media, mi raccontava della vita dei monaci buddisti, delle loro incombenze quotidiane. Il buddismo in Cambogia non gode di buona salute. È difficile essere monaci, esserlo in modo autentico, perché espone ad una precarietà di vita che in questo mondo moderno diventa sempre più insostenibile, per certi aspetti anacronistica. Il monaco non potrebbe toccare denaro, per esempio, e non potrebbe guidare un’auto o una moto. Non potrebbe possedere alcunché se non l’abito monastico di cui ha un solo cambio. Si nutre di quello che raccoglie nella questua quotidiana, senza mai potersi scegliere il menù. Penso a quanto siano diverse certe nostre mense comunitarie o certe nostre diete imposte dall’ordine del medico e causate da una vita eccessivamente comoda. Quando esce per la questua – dovrebbe farlo la mattina presto mentre è ancora buio perché se vi fosse luce sufficiente per vedere il palmo della propria mano e le sue linee, sarebbe fuori dall’orario prescritto della regola – il monaco camminando deve mantenere lo sguardo sempre basso, osando alzare gli occhi solo per un raggio di sette passi attorno a sé. In questo modo dovrebbe riuscire ad evitare qualsiasi tentazione che spesso ha proprio nello sguardo, negli occhi, la sua porta di accesso al cuore. Ciò che appare allo sguardo infatti, se attraente e affascinante, diventata prima o poi desiderabile, suscita emozioni, opinioni, conclusioni che lo allontanerebbero dal Dharma, la dottrina del Budda, a cui il monaco dovrebbe dedicarsi interamente: “l’impegno del Dharma, l’impegno nel Dharma, l’impegno per il Dharma (…) gustare e far gustare il Dharma” fatto di “insegnamento, pratica, e pativedha, la comprensione che libera”.[3]

Dicevo a Sim che se anche sono cristiano o proprio perché sono cristiano, considero “valore” il Dharma e tutte le pratiche dei monaci. Non mi importa se spesso sono compiute solo in obbedienza alla legge e se con il tempo sono state per lo più svuotate del loro senso. So bene che l’impegno del, nel e per il Dharma e diverso dall’impegno per Cristo, con Cristo e in Cristo, e nondimeno ritengo che la devozione dei monaci fatta di così tante pratiche, non sia meno importante, rispettabile, esigente del mio essere missionario in questa terra che è interamente buddista. Considero ogni loro gesto monastico pieno di senso, zeppo di destino. Vorrei incoraggiarli a perseverare fino a dichiarare ciò che sento quando li incontro per strada, tutti sempre più giovani di me, molti ancora bambini che entrano nella vita monastica per necessità più che per vocazione. Ebbene, sento per loro una sorta di comunione nella medesima solitudine. Perché anch’io “che nella notte abito solo, – scrive il poeta Giorgio Caproni – anch’io, di notte, strusciando un cerino sul muro, accendo cauto una candela bianca nella mia mente – apro una vela timida nella tenebra, e il pennino strusciando che mi scricchiola, anch’io scrivo e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto che mi bagna la mente”.[4] Una solitudine così non può che essere feconda, sofferta ma feconda. Fino a creare comunione tra noi.

Molte persone come quel papà, quindi, e molti monaci con quelle loro pratiche monastiche quotidiane e seriali, mi provocano ad una vita più semplice, più radicale. Non parlo tanto di una vita più sobria perché questo potrebbe farci pensare alla “quantità”. Preferisco parlare di una vita più semplice e radicale. E se da una parte la semplicità offre una prospettiva meno pauperistica, più capace di rimandare a tutta l’esperienza umana, dalla vita pratica all’attività del pensiero, dall’altra, la “radicalità” ci riavvicina alla radice di ogni ascesi cristiana, di ogni possedere o non possedere, di ogni rinuncia o sacrificio, che è l’amicizia con Cristo, l’essere suoi discepoli e imitatori. Perché tutto possa accadere per Cristo, con Cristo e in Cristo…

Qualche mese fa mi è capitato di trovarmi allo sportello centrale di un ospedale. Quegli sportelli ai quali ci si rivolge per pagare il costo della prestazione medica e ritirare le medicine. Al mio fianco, presso lo sportello attiguo, ho notato una mamma con il suo figlioletto. Nella conversazione con l’impiegata quella mamma stava tergiversando per capire quali medicine fossero necessarie e quali no. Non aveva abbastanza soldi per pagare tutti i farmaci prescritti e cercava di strappare all’impiegata il consenso per un’improbabile riduzione, comprando subito i farmaci più importanti, rimandando ad un altro momento l’acquisto dei farmaci per così dire “secondari”.

Di fronte a quel papà, a questa mamma, a tutti i monaci che incontro, l’impeto della fede mi fa certo che tutto appartiene a Dio. La stessa vita di Cristo afferma con forza, in tutti i suoi misteri, che il nostro destino lo riguarda, che noi siamo di Cristo e che Cristo è di Dio (1 Corinzi 3, 22-23). “Un vero dolore che esce dall’uomo – fa dire G. Bernanos al suo curato – appartiene anzitutto a Dio”.[5] Ieri cercavo di spiegarlo a Sim che sembrava capire. Anche il lavoro educativo che ci apprestiamo a condividere nella nascente scuola media è carico di destino perché tutto è attraversato da questo nostro essere di Dio. È come irrobustito da una comunione con Lui, scritta per sempre dalla storia di Gesù. “Non riesco più a staccarmi di dosso questa appartenenza”, gli dicevo, perché genera una positività che mi fa care tutte le cose. Fino a che Egli venga. C’è infatti un secondo tratto che esprime l’originalità cristiana ed è quello dell’attesa del Signore che viene. Forse quest’attesa ultima fa di noi missionari uomini più certi, meno soli. Anche se ha dell’incredibile e lo sappiamo solo noi: che Egli “deve venire,(…) verrà d’improvviso, / quando meno l’avverto: / verrà quasi perdono / di quanto fa morire, / verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già viene / il suo bisbiglio” (C. Rebora, Dall’immagine tesa). Ciao!

padre Alberto

 

[1] E. DE LUCA, Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino 2002, 35.

[2]G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano 1998, 54-55.

[3] C. PENSA, La tranquilla passione, Roma 1994, 72. Il corsivo è dell’autore.

[4]G. CAPRONI, L’opera in versi, Milano 1998, 185.

[5]G. BERNANOS, 72.