AL DI LA’ DEL MEKONG
La lotta per la libertà

La lotta per la libertà

LA RIFLESSIONE
Rischiamo di preferire al Dio vivente un dio a portata di mano e di capriccio

 

Vale la pena soffermarsi un poco sulla diatriba tra Pietro e Paolo così come è raccontata nel capitolo secondo della lettera ai Galati. Una diatriba che in realtà rivela i connotati della libertà cristiana: inusuale, indeducibile dalla tradizione giudaica, che può fare a meno della legge, ma non della persona di Gesù. Al punto che alcuni – scrive Paolo – «si erano intromessi a spiare» quella libertà in Cristo Gesù (Gal 2,4). In un tempo in cui si oscilla tra identità rigide e identità liquide e l’esperienza religiosa è ridotta al fondamentalismo intransigente o al qualunquismo egocentrico dei gusti e dei sapori rigorosamente individuali, «spiare la libertà» di Paolo ci fa senz’altro bene.

Le prime comunità cristiane, come i Galati per esempio, si stavano lentamente emancipando dalle prescrizioni della legge di Mosè. Avevano trovato la salvezza in Gesù Cristo e non nell’obbligo della circoncisione. Quanti si avvicinavano al Cristo, risorto e vivente, si sentivano salvi, benedetti, figli amati, non per loro merito o per aver circonciso il proprio corpo, ma per essere stati rivestiti di Lui.

Pietro, dal canto suo, avrebbe impiegato del tempo per capire. Se infatti dapprima si era aperto ai pagani non circoncisi e aveva preso cibo con loro (2,12), accogliendo il fatto che anch’essi fossero chiamati da Dio a diventare figli, in un secondo momento fa marcia indietro e incomincia a discriminare proprio quei pagani con i quali aveva condiviso la tavola, solo per compiacere un gruppo di circoncisi fedeli alla legge in visita alla comunità. Per questo, senza mezzi termini, Paolo lo accuserà di ipocrisia (2,13). Di tenere cioè il piede in due scarpe: aderire in apparenza al progetto di Dio da una parte, compiacere i circoncisi legalisti dall’altra.

Nella lettera ai Galati la tensione fra i due grandi apostoli esplode. Paolo incalza Pietro con un acume teologico che rivela ciò che gli sta più a cuore, il dramma dell’ebreo Gesù di fronte a una religiosità asfittica e priva di vita, ridotta alla cultura religiosa del tempo, ma che nulla aveva a che fare con la potenza della Sua resurrezione. Se «noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo – scrive Paolo – siamo trovati peccatori come gli altri» non circoncisi, allora «forse Cristo è ministro del peccato?» (2,17). Detto altrimenti, se Cristo rende superflua la circoncisione, Lui è forse contro la legge mosaica e quindi è ministro del peccato? «Impossibile! – risponde Paolo -. Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi» (3,13). Perché solo facendosi maledizione di fronte a quella cultura religiosa, avrebbe potuto liberarci dal giogo delle prescrizioni e delle convenzioni, mute e sorde, degli uomini.

Non capiremmo il senso di questa lotta per la libertà se non considerassimo il significato della legge e della pratica della circoncisione. Tutto ciò rappresentava il modo convenzionale, il politicamente corretto, il pre-scritto dal contesto religioso del tempo. Si trattava di puro conformismo, di sistema cui adeguarsi, e il timore di Paolo è che avrebbe impacchettato Dio dentro formule praticabili e convenienti. Un dio fai da te, non più vivente, ridotto ad ingrediente di un sistema religioso e culturale prestabilito che avrebbe trasformato la religione in gioco di potere, fondamentalista o qualunquista, a seconda delle stagioni. Il discorso è attuale. Siamo costretti oggi da circoncisioni che sono religiose, ma di religioni dimezzate. E da sistemi di pensiero che potremmo ben chiamare “circoncisioni laiche” non meno pervasive, che governano umori e opinioni, riducono la complessità del reale a slogan, a formule spendibili nello spazio di un talk-show, ma che non nutrono l’anima, anzi la frammentano, la separano dal Dio vivente, dal Dio di Gesù Cristo. Sono più simili alla censura che spegne, che scoraggia ciò che è vivente e fonte della vita. La censura dei potenti, dei media, di chiunque detta gli umori delle masse, che finiscono col preferire al Dio vivente un dio riducibile, a portata di mano e di capriccio. Un dio garanzia di salute, di benessere, di pace interiore. Di vita comoda e di morte facile. Di figli su misura e di amori usa e getta. Salvo poi finire “insieme ma soli”, dal titolo di un bel libro della psicologa americana Sherry Turkle.

Nondimeno, nella lettera ai Galati, Paolo non si rivela così ingenuo da buttare il bambino e l’acqua sporca. Non butta la legge, la tradizione, ma si chiede piuttosto «Perché allora la legge?» (3,19). E risponde con non minore acume: essa ha avuto il compito di custodire il popolo per tutto il tempo «prima che venisse la fede». Ha indicato al popolo la strada per non perdersi e cadere nell’idolatria. «La legge – continua Paolo – è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede» (3,24). Ci ha guidati, ma «appena è giunta la fede», la legge ha terminato il suo compito e ha lasciato il posto a Cristo. Perché la legge da sé non basta e non è vero che è uguale per tutti! Solo Dio ci fa eguali, nella pari dignità di figli: giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna, circonciso o non circonciso, tutti «uno in Cristo Gesù (…) eredi secondo la promessa» (3,28).

Il Dio di Gesù Cristo, vivo e libero, irriducibile alle circoncisioni laiche o religiose di ogni tempo, è capace di benedire tutti. E noi liberi con Lui di fare a meno persino della legge, ma non della Sua vita. Oltre il fondamentalismo delle religioni dimezzate, il qualunquismo delle convenienze, le censure del potere dominante.