Io, missionario malato di Covid in India

Io, missionario malato di Covid in India

«Malati ammassati fuori dagli ospedali per mancanza di posto», ma anche la speculazione di chi «si sta arricchendo grazie al virus»: la testimonianza di un giovane missionario del Pime dall’Andhra Pradesh

Sono padre Naresh Gosala e sono un missionario indiano del Pime in Guinea-Bissau. Lo scorso marzo sono tornato a casa, qui in India, per trascorrere le vacanze. Appena atterrato, in aeroporto ho dovuto fare il tampone per il Covid-19 e mi sono reso subito conto della difficoltà a rispettare le misure di distanziamento sociale in un contesto, come il mio Paese, caratterizzato dal sovraffollamento. Proprio il grandissimo numero di abitanti e la mancanza di spazi adeguati – basta vedere la folla che riempie un qualunque mercato – è una delle cause evidenti dell’attuale, drammatica, diffusione del virus in India.

Una situazione tragica che ho sperimentato sulla mia pelle. Sebbene da quando sono rientrato io abbia sempre mantenuto una condotta molto prudente – uscivo solo per andare quotidianamente a Messa nella chiesa parrocchiale, sempre con la mascherina e il disinfettante per le mani – qualche settimana fa ho cominciato ad avvertire alcuni sintomi sospetti: nausea, forte debolezza e febbre alta. Dopo alcuni giorni ho deciso di andare all’ospedale ma, una volta fatti gli esami del sangue, mi hanno rimandato a casa perché non avevo ancora difficoltà respiratorie. Io, però, ho preferito fare un tampone e così ho scoperto di essere positivo al Covid-19.

All’inizio non mi sono preoccupato troppo: ho informato i miei fratelli e mi sono messo in isolamento in un piccolo appartamento in affitto. Presto, però, ho cominciato a peggiorare: nonostante i farmaci molto pesanti che assumevo, il livello di ossigeno nel sangue continuava a scendere. Mi hanno fatto una Tac, da cui è emerso che avevo un’infezione ai polmoni: questo ha aumentato la mia preoccupazione, perché in passato per due volte avevo già avuto un’infezione di quel tipo.

Il periodo di malattia è stato per me molto stressante: da una parte, ho constatato l’arbitrarietà dei diversi medici nell’assegnare una terapia, dall’altra le notizie che mi arrivavano soprattutto dai social media, che parlavano di tanti giovani anche miei conoscenti stroncati dal virus, erano spaventose. Sono sacerdote e anche missionario, eppure in quel momento ho sperimentato la paura di morire. Ho temuto che avrei perso tutto: la mia famiglia, il Pime, la mia missione, i miei adolescenti in Guinea-Bissau, i miei amici in Italia…

In missione avevo già vissuto situazioni in qualche modo pericolose, in particolare dopo l’arrivo della pandemia mi ero mobilitato con i giovani della parrocchia per andare a soccorrere le persone bisognose di aiuto materiale. Assistevo anche bambini con la tosse e la febbre: non mi ero mai preoccupato che avrei potuto contagiarmi e aggravarmi.

Poi, qui in India, è successo. Dopo una decina di giorni dalla comparsa dei primi sintomi, ho cominciato a sentirmi davvero male. Mi mancava il respiro. I miei superiori hanno acconsentito a ricoverarmi: ho trovato posto in un ospedale gestito da religiose nella città di Visakhapatnam, in Andhra Pradesh, dove mi trovavo. Lì mi sono sentito più protetto e assistito. Ho continuato con cure pesanti e per due giorni ho avuto bisogno dell’ossigeno, poi però piano piano le mie condizioni sono migliorate. Certo, ero debolissimo, facevo fatica a muovere pochi passi o a lavarmi e mi mancava il respiro. Quando i miei fratelli venivano a trovarmi faticavo persino a parlare con loro. Quando mi hanno dimesso, ho dovuto continuare gli esercizi per i polmoni e osservare ancora la quarantena. Ho trascorso la convalescenza nella Casa del Pime e infine sono potuto tornare a casa. Quando finalmente il mio tampone è risultato negativo ero davvero felice.

Questa esperienza di malattia, tuttavia, è stata un’occasione forte per riflettere. Nei giorni più duri, infatti, mi era sembrato di aver perso persino la fiducia in Dio. Ma a posteriori mi sono reso conto che proprio quella è stata l’unica cosa che mi era rimasta: ho sentito la presenza del Signore attraverso la vicinanza di chi mi è stato accanto in questa prova, i miei famigliari, gli amici che mi chiamavano, i superiori, il mio padre spirituale… E poi celebrare la Messa tutti giorni è stata la mia grande forza.

Ma a farmi pensare è stato anche ciò che ho visto negli ospedali ogni volta che sono andato a fare esami o sottopormi a cure. Una situazione drammatica. Tantissima gente. Persone con la tosse forte e la febbre alta ammassate fuori dagli ospedali perché dentro non c’era più posto. Per i più gravi, i medici portavano le bombole di ossigeno sotto gli alberi.

In India la gente sceglie dove curarsi a seconda del costo delle diverse strutture. Tanti muoiono perché non hanno i soldi per andare in ospedale e avere l’ossigeno. Chi vive nei villaggi, poi, può fare affidamento solo sui guadagni giornalieri legati all’agricoltura di sussistenza, quindi non può permettersi nemmeno le medicine. E intanto i prezzi dei presidi sanitari sono schizzati alle stelle.

Mentre la gente muore, paradossalmente in tanti si stanno arricchendo grazie alla pandemia: strutture sanitarie, medici, farmacisti… Il Covid in India è diventato un grande affare. Invece che aiutarci tra di noi, cerchiamo i modi per guadagnare dalla situazione.

C’è anche un problema culturale. Noi indiani siamo generalmente molto religiosi e tendiamo a credere che Dio ci proteggerà, ma questo purtroppo porta tanti a non prendere le precauzioni necessarie per tutelare sé e gli altri. Lo abbiamo visto con le drammatiche conseguenze della grande cerimonia indù del Kumbh Mela. Ma fino a Pasqua anche le chiese erano aperte. E visto che i fedeli sono abituati a fermarsi dopo la Messa per ricevere la benedizione del sacerdote, che la impartisce imponendo le mani sul capo, diverse persone con i sintomi del Covid-19 al posto che fare subito il test andavano in chiesa pensando che la benedizione del prete avrebbe fatto sparire ogni disturbo. Questo non ha fatto che peggiorare la situazione del contagio.

Oggi, per fortuna, il momento più tragico di questa ondata della pandemia sembra passato. Tanti Paesi ci hanno mandato aiuti e spero che il nostro governo li usi per il benessere della popolazione. Vi chiedo però di continuare a pregare per l’India, perché qui la battaglia contro il Coronavirus non è ancora stata vinta.