Anglicani e schiavitù: una mostra a Londra

Anglicani e schiavitù: una mostra a Londra

Aperta a Londra fino al 31 marzo su iniziativa della Chiesa d’Inghilterra stessa “Enslavement: Voices from the Archives” indaga i due volti del rapporto con la tratta degli schiavi: i benefici economici diretti ma anche le voci che fin dal 1680 si alzarono per condannare il fenomeno. In mostra anche la “Bibbia degli schiavi”, dalla quale vennero rimossi tutti i capitoli che facevano riferimento alla liberazione del popolo di Israele dall’Egitto

 

A Londra alla Lambeth Palace Library – la biblioteca nazionale e archivio della Chiesa Anglicana situata nel quartiere di Lambeth a sud del Tamigi – è in corso fino al 31 marzo una mostra dal titolo Enslavement: Voices from the Archives (“Schiavitù: voci dagli archivi”).

L’esposizione – attraverso documenti, illustrazioni, lettere e libri – indaga il rapporto tra la Chiesa anglicana e la schiavitù transatlantica che ha caratterizzato il periodo fra il XVI e il XIX secolo, in un’operazione di ricostruzione di una memoria dolorosa. La collezione, in particolare, accompagna il rapporto pubblico dei Commissari ecclesiastici che hanno indagato sui legami storici tra la schiavitù e il Queen Anne’s Bounty, uno schema istituito nel 1704 per aumentare le entrate del clero più povero della Chiesa d’Inghilterra.

Tra i documenti sono presenti lettere di schiavi e dei missionari inviati nelle Americhe e nei Caraibi, ma non mancano pubblicazioni che riportano posizioni contrastanti all’interno della Chiesa stessa riguardo i diritti degli schiavi e l’abolizione della schiavitù. Se da una parte, infatti, agli schiavizzati non era concesso nemmeno di battezzarsi e sposarsi per timore che questi diritti potessero danneggiare la proprietà e i diritti legali dei padroni, dall’altra alcuni missionari denunciavano le dure condizioni di vita cui erano sottoposti nelle piantagioni.

Tra le voci che si levarono contro la schiavitù quella del reverendo e ministro anglicano Morgan Godwyn, missionario in Virginia e alle Barbados, che già nel 1680 scrisse un appello all’arcivescovo di Canterbury per poter permettere ai sacerdoti di battezzare quanti erano ridotti in schiavitù. Dopo essere tornato in Inghilterra, pubblicò diversi trattati in cui chiedeva la conversione al cristianesimo delle persone schiavizzate e in cui criticava l’immoralità del commercio di schiavi e della schiavitù stessa.

Un reperto interessante – pubblicato per conto della Società per la Conversione degli Schiavi Neri nelle isole britanniche delle Indie Occidentali, fondata dal vescovo abolizionista Beilby Porteus – è la “Bibbia degli schiavi”, una versione della Bibbia che conteneva appena 232 capitoli rispetto ai 1189 delle normali Bibbie protestanti. Questa versione escludeva il 90% dell’Antico Testamento e il 50% del Nuovo: tanti riferimenti alla liberazione dalla schiavitù degli ebrei in Egitto furono rimossi per enfatizzare, al contrario, i passaggi che incoraggiavano la lealtà e la sottomissione ai padroni.

Il primo di una serie di otto libri contabili – inoltre – documenta le transazioni del Queen Anne’s Bounty dal 1708 al 1776. Una voce registra una somma donata per l’aumento della canonica di Strethall, nell’Essex, da parte della South Sea Company, una società britannica fondata nel 1711 per ridurre il debito nazionale a cui venne concesso il monopolio per il commercio e il trasporto di persone africane ridotte in schiavitù nei porti spagnoli delle Americhe.

L’esposizione include anche due petizioni. La prima, datata 4 agosto 1723, anonima, venne inviata dalla Virginia all’arcivescovo di Londra e costituisce una delle prime richieste di libertà da parte di una persona schiavizzata. L’appello per l’emancipazione è poi seguito da una richiesta di educazione cristiana. Per molti proprietari di piantagioni, però, alfabetizzarsi e diventare cristiani era visto come un atto che minava il sistema di schiavitù.

La seconda è la petizione di Esther Smith inviata all’arcivescovo Secker il 19 luglio 1760. Esther – una schiava nata a New York e portata in Inghilterra da uno dei suoi schiavisti – documenta il numero di volte che è stata comprata e venduta nel corso della sua vita e chiede di essere battezzata per evitare di essere mandata nelle Indie Occidentali. Il battesimo non avrebbe, tuttavia, cambiato il suo status di schiava e non si hanno ulteriori documenti che raccontino se Esther sia riuscita nei suoi sforzi.

Enslavement: Voices from the Archives è dunque una mostra che con onestà testimonia come la Chiesa anglicana da una parte abbia alimentato lo schiavismo e dall’altra lo abbia combattuto. L’intento è quello di lasciar parlare gli archivi storici, semplicemente riportando alla luce un pezzo di storia la cui eredità è ancora visibile oggi.