Il pane mangiato insieme

Il pane mangiato insieme

SPECIALE «FRATELLI TUTTI»
Da vent’anni in Bangladesh, fratel Lucio Beninati affronta la pandemia di Coronavirus come sempre: accanto ai bambini di strada. Con molti più bisogni e molti meno volontari. Ma anche con tanta solidarietà

 

«Questa carità è sempre un amore preferenziale per gli ultimi, che sta dietro ogni azione compiuta in loro favore» (Fratelli tutti, 187)

 

La fraternità vissuta in strada. Sono vent’anni che fratel Lucio Beninati, missionario del Pime, opera in Bangladesh e da quasi quattordici condivide la sua vita con i bambini di strada di Dacca, la popolosa e caotica capitale del Bangladesh. Dove milioni di persone vivono ammassate. E moltissime sono abbandonate ai margini. Lui ha scelto, sin dall’inizio, di “starci dentro”, di accorciare le distanze, di «vivere in una casa molto semplice e di stare il più possibile in strada con loro». Il Covid-19, però, ha complicato tutto pure lì. «Come si può vivere la fraternità stando a distanza?», si interroga fratel Lucio. Inventandosi modi nuovi, è la risposta. Ma con tanto lavoro e tanti problemi in più. E con molti volontari in meno.

«Purtroppo – ci racconta il missionario – in questi mesi di epidemia, tanti non hanno potuto venire in strada. Durante il lockdown perché era proibito dal governo e la polizia e l’esercito erano molto duri e severi; dopo perché avevano paura del virus. Così di volontari ne è rimasto un terzo. Per bisogni che, invece, sono triplicati».

Una delle prime devastanti conseguenze della pandemia è stato l’aumento della miseria. Che anche in Bangladesh ha colpito con maggiore ferocia i più vulnerabili. E tra di loro, ovviamente, i bambini di strada, che vivono di piccoli commerci – vendita di noccioline, pop corn o tè -, lavorano in stazione e al porto come facchini, o raccolgono rottami e scarti che poi rivendono; molti chiedono l’elemosina o si accontentano degli scarti dei ristoranti.

«Nella strada cerchiamo innanzitutto di creare un rapporto con i bambini – spiega fratel Lucio -. Li aiutiamo a prendere consapevolezza della loro situazione, ma anche delle alternative che potrebbero avere oltre la strada. Creiamo legami di fiducia attraverso il gioco, il counseling, piccoli corsi di alfabetizzazione e qualche medicinale in caso di bisogno. Nel periodo del lockdown, tuttavia, abbiamo dovuto cominciare anche a distribuire cibo, perché era tutto chiuso e c’era molta meno gente in giro e loro non riuscivano neppure a raggranellare pochi spiccioli per sopravvivere. I bambini di strada, poi, sono additati come “untori”. Ancora più stigmatizzati di prima. E le condizioni igienico-sanitarie già molto precarie sono ulteriormente peggiorate». Paradossalmente gli aiuti materiali non sono mancati. Fratel Lucio ha trovato molta solidarietà e generosità e tutta sul posto. La difficoltà vera era appunto quella di non avere abbastanza volontari per arrivare là dove c’era bisogno. In tutti questi anni, lui e i suoi collaboratori erano riusciti a costruire una rete straordinaria, coinvolgendo in tutto circa 900 persone. Delle sessanta che normalmente gli danno una mano, ne sono rimaste una ventina. Ma non si sono dati per vinti. Anzi, si sono rimboccati ancor di più le maniche.

«Alcuni amici ci hanno offerto viveri o donazioni – racconta -, altri hanno cucinato, altri ancora ci hanno garantito il trasporto, sette giorni su sette. Abbiamo iniziato con 30 bambini e poi siamo arrivati a più di 50. E anche gli adulti hanno cominciato a chiedere aiuto. Nonostante questo siamo riusciti a dare sostegno pure a una casa di accoglienza. Il tutto organizzato dal nostro coordinatore, Kabir, un giovane musulmano di 25 anni».

Durante le fasi più acute dell’emergenza-Coronavirus, fratel Lucio e i suoi collaboratori hanno potuto distribuire solo il cibo. Adesso sono riprese alcune attività. Anche se tutto è più difficile: «Eravamo soliti giocare in strada – spiega -, ma ora alcuni giochi non li possiamo più fare, perché cerchiamo di non avvicinarci e di non toccarci. Abbiamo preso vari accorgimenti, ma siamo sempre troppo pochi».

E il numero dei bambini abbandonati a loro stessi continua a crescere. «La maggior parte ha tra gli 11 e i 12 anni – continua il missionario -, ma ce ne sono anche di più piccoli, addirittura di 4/5 anni. E ovviamente di più grandi. E pure qualche bambina. Molti di loro sono psicologicamente molto fragili. Alcuni sono scappati di casa per delle banalità. E non hanno più il coraggio di tornare. Ci sono anche delle bambine che spesso cercano di farsi passare per maschi per non essere disturbate e fanno gli stessi lavori dei bambini. Alcune finiscono nel giro della prostituzione e dunque vengono subito stigmatizzate. Difficile che qualcuno se ne faccia carico. Noi cerchiamo di promuovere la riconciliazione con la famiglia o di accompagnarli verso case di accoglienza. Ma non sempre è facile. A volte, seguiamo un bambino per mesi o anche per anni, ci sembra che stia facendo un percorso positivo di riscatto e poi ricade nell’abisso della strada».

Fratel Lucio la definisce una “maledizione” quella della strada, e ricorda le parole del compianto cardinale Carlo Maria Martini, che diceva sempre che gli emarginati non sono la parte malata della società, ma coloro che portano il peso di una società malata. «È proprio così!», esclama fratel Lucio, che per i bambini di strada ha una vera e propria vocazione, sin da quando scorrazzava nelle strade di Spaccanapoli, dove è cresciuto. Qui, grazie alla frequentazione dell’Azione Catto­lica ragazzi e al suo vice parroco, una figura particolarmente illuminata – don Gennaro Nardi, autore del libro “Cinesi a Na­poli”, ovvero quei seminaristi cinesi che dal 1728 al 1888 frequentavano il collegio fondato da padre Matteo Ripa -, ha conosciuto il Pime. «Mi aprirono la mente e mi ci fecero entrare il mondo», ricorda Beninati che era stato scosso anche dalla testimonianza di Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi e dal suo libro Se Cristo, domani, busserà alla vostra porta. «Che visione ampia! – sospira fratel Lucio -. Quel libro mi ha sconvolto. Mi sentivo attratto da queste figure laicali, non volevo diventare presbitero. Ho fatto il percorso di formazione al Pime di Busto Arsizio e come prima destinazione mi è stato assegnato il Bangladesh. Sono arrivato nell’88 e ho lavorato 4 anni alla Novara Technical School di Dinajpur. Ma quello che mi piaceva di più era creare relazioni con la gente, avere rapporti di cuore con le persone. Questo mi portava a fare diverse cose. Anche a scontrarmi, letteralmente, con il fenomeno dei bambini di strada».

Fu un grande schock, ma soprattutto una fulminazione. Fratel Lucio si sente immediatamente attratto da quel mondo. Se ne accorsero anche i superiori che, a quel tempo, pensarono che per occuparsi di bambini di strada occorresse andare in Brasile. «Si pensava che fosse la “patria dei bambini di strada” – ricorda -. Ma erroneamente. Probabilmente ce ne sono di più in Bangladesh, ma ormai ero a San Paolo dove ho potuto crescere alla scuola di un grande missionario, padre Maurilio Maritano. È stata per me una figura importantissima. Un uomo con grandi sogni e una grande visione. Che comprendeva non solo i meninos de rua, ma anche prostitute, trans, malati di Aids, tutti quelli che venivano in qualche modo scartati dalla società… Stava invecchiando, ma il suo cuore era sempre quello di un giovane. Dopo qualche tempo, mi mandò a fare esperienza con padre Alfredino, un missionario svizzero dei preti operai Figli della Carità, in una baraccopoli di Sant’André. È lì che sono stato “svezzato”. Ho vissuto in favela e ho imparato cosa significa lavorare con i bambini di strada». Il suo cuore, però, era rimasto in Bangladesh. San Paolo del Brasile assomigliava troppo alla sua Napoli. Mentre lui pensava al mondo musulmano e indù e alla possibilità di un dialogo partendo dagli ultimi. È tornato a Dacca nel 2005 e nel 2007 ha fondato l’associazione “Pothoshishu Sheba Songothon” (Pss), che significa “Associazione per servire i bambini di strada”, nata con sette persone: un musulmano e sei cristiani, tra cui quattro tribali.

«Del resto, che cosa ci ha detto Gesù? Chi sarà il più grande? Il più grande è il servitore! – si entusiasma fratel Lucio -. È quello che ci ripete continuamente anche Papa Francesco. E che ha ribadito pure nell’enciclica Fratelli tutti. È una cosa che non credevo possibile. Spero veramente che quelle parole vengano incarnate nella vita, nella storia».
Lui le sta incarnando nella strada, come ha sempre fatto. «Esser tutti fratelli… Io ci credo veramente! Anche se in strada mi guardano strano: uno straniero, un adulto che gioca con dei bambini, con quei bambini… È una cosa che in Bangladesh fa ancora scandalo, che è inconcepibile».

Anche vivere in una baraccopoli, vicina alla stazione, in una casupola con il tetto di lamiera, sorretta da sei canne di bambù, è qualcosa di inusuale. «Ma prima i pali di bambù erano solo quattro – scherza fratel Lucio -. E poi è un ambiente pulito, non c’è immondizia in giro, c’è il filtro dell’acqua, e ci sono libri e giocattoli. Prima del Coronavirus era un luogo aperto, adesso non faccio entrare più di tre persone alla volta e per un massimo di un’ora. Alla fine, però, ci sto quasi solo per dormine, pregare, leggere e mangiare. Spesso arrivo la sera tardi e riparto la mattina presto. Per tornare in strada».

«Nella baraccopoli sono l’unico straniero – continua -, ma mi sento uno di loro: non un bianco, un estraneo, un vecchio… Nemmeno me ne accorgo di essere diverso. Il mio obiettivo è sparire per diventare lievito invisibile». È la sua strategia silenziosa dell’annuncio, fatto di vita condivisa, di testimonianza e «non certo di proselitismo», puntualizza. «E non solo carità. Salvo le emergenze, qui non diamo il pane ai poveri. Lo mangiamo insieme».