Il Cile in fiamme

Il Cile in fiamme

Le proteste che da mesi sconvolgono il Paese non si fermano, nonostante la promessa di una nuova Costituzione. Per l’esperto Alfredo Riquelme «serve una svolta storica nel modello statale»

Migliaia di cittadini in piazza, violenze da par­­te delle forze del­l’ordine, rabbia fuori control­lo e chiese bruciate. Le proteste scoppiate in Cile lo scorso ottobre non si fermano e il Paese resta, letteralmente, in fiamme. «Il persistere delle rivolte, che il governo non è riuscito a soffocare nemmeno con un’azione di polizia molto dura, e l’adesione trasversale che esse hanno ottenuto nonostante la distruzione delle infrastrutture urbane, i saccheggi e le violenze che le hanno accompagnate indicano che le cause del disagio sono profonde e che potenti sono le motivazioni di coloro che vi partecipano o le sostengono», spiega il professor Al­fredo Riquelme Segovia, a capo del Dipartimento di Storia universale alla Pontificia Università Cattolica del Cile. «L’incapacità del governo di gestire politicamente la protesta e ripristinare l’ordine pubblico e la scelta di privilegiare l’uso della forza con “diffuse violazioni dei diritti umani”, come hanno denunciato realtà come Amnesty International e le stesse Nazioni Unite, hanno aggiunto una crisi politica dall’esito imprevedibile a quella sociale».

Professore, quali sono le ragioni profonde della rivolta?

«Sebbene le cause siano complesse e plurali, decisiva è la dimensione economico-sociale. In discussione è il modello di ar­­ti­­colazione tra economia, Stato e società imposto manu militari alla fine degli Anni 70 e conservato nella democrazia post autoritaria. La crescita economica e i progressi ottenuti dagli anni Novanta grazie a politiche sociali più o meno mirate sono stati insufficienti per la stragrande maggioranza dei lavoratori, gravati da salari molto bassi e pensioni misere in età avanzata, a fronte dell’alto costo della vita e in contrasto con gli enormi profitti delle grandi aziende, delle banche e delle organizzazioni a scopo di lucro che gestiscono la previdenza e la sanità privata. Questa ingiustizia è stata gridata da centinaia di migliaia di manifestanti e da migliaia di persone riunitesi in organizzazioni che – come il Consiglio per l’Unità sociale – stanno ora cercando di dare forma a una mobilitazione così sfaccettata. Oltre due milioni di cittadini, in una consultazione organizzata dai Comuni, hanno indicato nelle pensioni, nella sanità pubblica e nell’istruzione le priorità di cui lo Stato deve occuparsi».

Come è possibile venire incontro alle esigenze espresse dal popolo?

«Un vero superamento della cri­­­­­si ci sarà solo se le élite economiche, gli attori politici e gli intellettuali prenderanno atto che è urgente correggere i fallimenti strutturali del modello socioeconomico stabilito 40 anni fa. È necessaria una svolta storica verso la ridistribuzione della ricchezza, che renda possibile un miglioramento tangibile delle condizioni di vita di lavoratori e pensionati. Non farlo aggraverà la disgregazione sociale, con enormi costi economici e umani».

Come operare concretamente questa svolta?

«In risposta alle pressioni popolari è stato avviato un processo costituzionale per sostituire l’attuale Costituzione del 1980, che, nonostante le riforme in senso democratico introdotte soprattutto nel 2005, rimane un formidabile ostacolo a qualsiasi cambiamento significativo della di­­­­men­­­sione economico-sociale. Le Camere han­­no approvato un iter che prevede un referendum ad aprile in cui i cittadini decideranno se vogliono una nuova Costituzione e stabiliranno il tipo di Costituente che la elaborerà. I delegati saranno eletti a ottobre e la Costituente, che dovrebbe essere composta da uomini e donne in egual numero e includere rappresentanti dei popoli indigeni, avrà un anno per elaborare la nuova Carta, che sarà infine votata entro il 2021».

Qual è il ruolo della società civile in questo processo?

«La società civile, intesa come rete di realtà organizzate, non è stata la principale protagonista delle proteste, sebbene nelle dimostrazioni siano stati presenti sindacati e organizzazioni studentesche. Protagonista della piazza, soprattutto nelle prime settimane, sembrava essere la folla. Tuttavia, oggi si possono osservare nuove forme di organizzazione sociale e di attivismo politico, soprattutto tra i giovanissimi, presenti nelle mobilitazioni fin dall’inizio, quando la gente esasperata decise di non pagare in massa il biglietto dei mezzi pubblici. Inoltre, organizzazioni di professionisti, intellettuali e artisti hanno progressivamente alzato la voce contro le violenze; i medici per esempio hanno denunciato le centinaia di lesioni oculari causate dai fucili da caccia usati dalle forze dell’ordine per reprimere le proteste».

Come giudica l’attivismo femminile?

«La mobilitazione delle donne contro gli abusi e la violenza, che ha raggiunto portata mondiale con la diffusione del video del gruppo Lastesis, è stata straordinaria. Le rivendicazioni femminili si inseriscono nel contesto più generale delle violenze che stanno devastando il Paese e che sono già costate 26 vite umane, oltre ai feriti e alla distruzione materiale».

Per esempio ai danni delle chiese. Perché questi attacchi?

«Negli ultimi anni in Cile è cresciuta la sfiducia nelle élite e nelle istituzioni che storicamente godevano del rispetto della società. Tra le realtà più colpite c’è la Chiesa cattolica, scossa da ripetuti scandali di abusi sessuali che hanno gravemente compromesso la credibilità e l’influenza dei vescovi e del clero nella società. Graffiti anti-cattolici sono comparsi ovunque».

E come reagisce la Chiesa?

«In questo grave quadro, diventa molto rilevante la posizione dei laici cattolici. Il rettore dell’Università Cattolica, uno dei due atenei più prestigiosi del Paese, ha affermato che “alla base delle proteste vi sono richieste legittime, espresse sia pacificamente sia attraverso atti di violenza e criminalità, che sono inaccettabili e che condanniamo. Allo stesso modo, alziamo la voce contro l’abuso dei diritti umani commesso dalle forze di polizia”».

Quanto pesa il passato a trent’anni dalla fine della dittatura?

«Pesa senza dubbio e rende ancora più intollerabili le attuali v­io­­­­lazioni dei diritti. Pesa anche perché il modello economico e sociale imposto allora continua a sopraffare la stragrande maggioranza dei cileni. La metà dei lavoratori guadagna meno di 500 euro al mese e, quando vanno in pensione, queste persone ve­­­dono il loro reddito mensile scen­dere tra il 50 e il 20% del loro stipendio. Anche molti professionisti, arrivati a guadagnare 3.000 euro al mese, possono poi ottenere pensioni inferiori a 500 euro. Si sentono molti over 60 dire: “La dittatura ha devastato la nostra gioventù e oggi la sua eredità minaccia di devastare la nostra vecchiaia”».