Ambrosoli, un beato per l’Uganda

Ambrosoli, un beato per l’Uganda

Figlio del fondatore della nota azienda del miele, medico e missionario comboniano, morì nel 1987 dopo aver speso ogni energia per mettere in salvo dalla guerra i pazienti del suo ospedale nel villaggio di Kalongo

Un missionario italiano morto nel 1987 si prepara a diventare presto beato. Il 28 novembre Papa Francesco ha infatti approvato la promulgazione del decreto che riconosce un miracolo avvenuto per intercessione di padre Giuseppe Ambrosoli, medico e missionario comboniano che per trent’anni ha vissuto la sua vocazione al servizio dei poveri tra le popolazioni di etnia acholi, nel Nord dell’Uganda.

Veniva da una famiglia importante padre Ambrosoli: nato nel 1923 a Ronago – un paese della provincia di Como, a due passi dalla Svizzera – era infatti uno dei figli del fondatore dell’omonima azienda del miele. Era cresciuto nel Cenacolo, il gruppo dei giovani dell’Azione Cattolica di Como plasmato dalla grande figura di don Silvio Riva, e nel 1942 si iscrisse alla facoltà di Medicina proprio con il desiderio di partire per la missione: «Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore», spiegò ai familiari. In quegli anni difficili segnati dalla guerra non mancò di spendersi anche per aiutare a mettersi in salvo i “profughi” (ebrei e partigiani) che sulle sue montagne cercavano di arrivare in Svizzera. Quando però poi arrivò la cartolina con la chiamata alla leva nella Repubblica di Salò non si sottrasse per evitare problemi alla famiglia; persino nei servizi sanitari dell’esercito repubblichino – però – trovò il modo di fare del bene.

Conseguite poi la laurea in Medicina e chirurgia nel 1949 e una specializzazione in malattie tropicali, entrò tra i missionari comboniani per i quali fu ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini. In un primo tempo aveva pensato anche ai gesuiti, ma alla fine fu il suo senso pratico a portarlo a scegliere chi gli avrebbe permesso di partire prima per la missione. Nel febbraio 1956, così, s’imbarcò per l’Africa dove fu destinato a Kalongo, allora un villaggio sperduto nella savana, nel Nord dell’Uganda. Ad attenderlo trovò un piccolo dispensario medico – una capanna con il tetto di paglia – che sarebbe diventato per trent’anni tutta la sua vita.

Grazie alla sua grande professionalità, all’instancabile dedizione e alla sua incrollabile fede, padre Giuseppe riuscì a trasformarlo in un ospedale efficiente e moderno. Ma – fedele al motto di Daniele Comboni, “Salvare l’Africa con l’Africa” – accanto all’ospedale fondò anche la St. Mary’s Midwifery Training School, oggi ufficialmente riconosciuta come una delle migliori scuole di ostetricia del Paese.

Chi lo ha conosciuto ricorda la sua quotidiana dedizione agli ammalati: «Al mattino – ha raccontato in un’intervista la nipote Giovanna, oggi alla guida della Fondazione che ne continua l’opera – iniziava a operare prestissimo, poi alle due mangiava un boccone, quindi via all’ambulatorio. Nel tardo pomeriggio la celebrazione della Messa e l’attività pastorale e la sera l’incontro con i medici e poi ancora lo studio fino a tarda notte». «Con i medici che troppo vantavano le loro capacità era inflessibile – raccontava un collaboratore in un articolo che Mondo e Missione dedicò alla sua morte nel 1987 -. Non si viene in Africa a far esperienza sulla pelle dei neri. Pur con gentilezza e bontà padre Giuseppe su questo non transigeva. “La chirurgia è arte e artigianato – ripeteva -; va fatta con scienza, ma anche con amore e coscienza”. E di quest’ultima lui ne aveva proprio tanta».

La sua dedizione senza riserve divenne trasparente nel momento più drammatico: il 13 febbraio 1987, nel pieno della guerra civile che flagellava il Nord Uganda, padre Giuseppe fu costretto per ordine militare a evacuare l’ospedale in sole 24 ore. In quella situazione drammatica i collaboratori lo sentirono dire: «Quello che Dio chiede non è mai troppo».  Dopo aver messo in salvo a Lira il personale medico e i malati, Ambrosoli riuscì a salvare anche la scuola di ostetricia. Ma questo sforzo minò irreparabilmente la sua salute già precaria: il 27 marzo 1987, appena 44 giorni dopo l’evacuazione dell’ospedale, morì per una crisi renale pochi minuti prima che arrivasse da Kampala l’elicottero inviato in suo soccorso.

«Con un gran magone in gola abbiamo dovuto abbandonare Kalongo  – aveva scritto nell’ultima sua lettera -. Ma il Signore è grande e ci ha dato la forza di accettare tutto dalla sua mano. È questa anzi un’occasione meravigliosa per crescere e maturare spiritualmente e distaccarci da tante cose terrene. Quindi ringraziamo di tutto il Signore».

La sua estrema testimonianza di fede ha accompagnato Kalongo nella sua resurrezione: due anni dopo l’ospedale poté riaprire grazie all’opera del confratello comboniano padre Egidio Tocalli e lì oggi padre Giuseppe Ambrosoli è sepolto. Quello che era un piccolo dispensario – grazie anche al sostegno della Fondazione Ambrosoli – oggi garantisce assistenza sanitaria qualificata a più di 50.000 persone e coordina 33 dispensari locali in una delle aree più povere dell’Uganda. Proprio in questo contesto è avvenuto anche il miracolo riconosciuto dal Papa: la guarigione di Lucia Lomokol, una donna che il 25 ottobre 2008 stava per morire a 20 anni di setticemia, dopo aver perso il figlio che portava in grembo. All’ospedale era arrivata troppo tardi e allora uno dei medici, vista l’impossibilità ormai di alcuna terapia, le aveva posto sotto il cuscino l’immagine di padre Giuseppe invitando i familiari a invocare il “grande dottore”.

Quella donna è guarita in un modo scientificamente inspiegabile. Segno visibile del miracolo tutto quotidiano che è stata la vita di padre Ambrosoli che la Chiesa si appresta a indicare al mondo come storia di santità.