Frontiera Anatolia: fede e accoglienza

Frontiera Anatolia: fede e accoglienza

Una Chiesa di minoranza, dispersa su un territorio vastissimo, che ora apre le porte a masse di rifugiati. «Cosa ci serve? Nuovi pastori»: parla monsignor Paolo Bizzeti, vicario apostolico nel cuore della Turchia.

Sul vicolo stretto che dal centro di Trabzon scende a gradini verso il porto, il piccolo cancello della katolik kilisesi, la chiesa cattolica di Santa Maria, è chiuso. Una scelta dettata dalla prudenza, visto che in questa città nebbiosa affacciata sul Mar Nero, nel profondo Nord della Turchia, non tutti tollerano volentieri la presenza cristiana.

Atti di intimidazione e vandalismo sono purtroppo frequenti e questa è la chiesa in cui, tredici anni fa, il fidei donum romano don Andrea Santoro veniva freddato da un ragazzino al grido di “Allahu Akbar”. Eppure, quando le campane suonano – e suonano, nonostante tutto -, un piccolo gruppo di fedeli arriva per la Messa: cristiani turchi, lavoratori georgiani, studenti africani, oltre a due giovani locali che hanno iniziato il percorso del catecumenato. In molti bussano per parlare col prete, pregare, chiedere informazioni sul cristianesimo.

Trecento chilometri più a est, nella città di Samsun, ha un volto diverso la comunità che si riunisce nella chiesa Mater Dolorosa, costruita dai frati cappuccini nel 1850. Alla parrocchia, riaperta nel 2017 dopo dieci anni senza un sacerdote, fanno riferimento una cinquantina di famiglie cattoliche fuggite dall’Iraq che da tempo chiedevano un luogo di aggregazione e di celebrazione della fede, a cui se ne aggiungono molte altre – in totale circa settecento – che vivono in città non troppo lontane, tra le colline anatoliche: da Amasya a Yozgat, da Tokat a Sinop. Appena riescono (e quando ottengono l’autorizzazione della polizia) questi “parrocchiani” si organizzano per partecipare alla Messa, anche se ciò comporta tre ore di pullman, poi si fermano per consumare insieme il pranzo portato da casa e per trascorrere qualche ora in serenità, mentre i bimbi giocano e respirano un clima di famiglia.

Ancora differente è la situazione a Iskenderun, mille chilometri più a sud, oltre le pianure della Cappadocia, dove il mare che lambisce il porto è il Mediterraneo e il confine con la Siria è a un’ora d’auto. La fisionomia della Chiesa, in questa zona, è stata completamente ridisegnata dall’arrivo in massa dei profughi in fuga dal conflitto siriano, che si sono aggiunti agli iracheni: solo i cristiani sono circa ventimila.

Proprio loro rappresentano una delle priorità per la Chiesa locale secondo monsignor Paolo Bizzeti, gesuita di origini fiorentine, classe 1947, dal 2015 alla guida del Vicariato dell’Anatolia: un’enorme diocesi che si estende su un’area di 400 mila chilometri quadrati, dal Mar Nero, appunto, fino alla frontiera con l’Iraq e l’Iran. Padre Paolo – come continuano a chiamarlo in molti -, già docente di Teologia spirituale alla Facoltà teologica del Triveneto e profondo conoscitore di questa regione (tra l’altro ha fondato l’associazione Amici del Medio Oriente), ha occupato il posto lasciato drammaticamente vuoto, nel 2010, da monsignor Luigi Padovese, sgozzato dal giovane autista: un episodio tragico che ha scioccato e indebolito la comunità.

«Dopo l’assassinio del vescovo, i fedeli sono rimasti senza un pastore per quasi sei anni: un lungo periodo di sbandamento da cui la Chiesa non si è ancora ripresa del tutto, anche se è in corso un rilancio», confessa monsignor Bizzeti.

Che cosa serve dunque, oggi, alle vostre comunità?

«Prima di tutto operatori pastorali: preti, suore… vorrei una presenza monastica in Cappadocia. La Chiesa turca dipende ancora dall’esterno, perché i laici locali non sono stati sufficientemente formati, sono abituati a dipendere dai religiosi, e i pochi sacerdoti latini autoctoni generalmente sono inviati a studiare e operare all’estero. In particolare, oggi, abbiamo necessità di assistenza pastorale per i moltissimi rifugiati arabofoni e anche per quelli che parlano farsi: cristiani provenienti dall’Iran e dall’Afghanistan, ansiosi di poter vivere la propria fede»

Che tipo di aiuto offre la Chiesa, oltre a quello spirituale?

«Le famiglie che fuggono dalla guerra, in generale, vivono in condizioni di povertà, anche se per i siriani il governo ha riconosciuto alcune possibilità di inserimento, sociale e lavorativo, negate invece a chi viene dall’Iraq. Noi, attraverso la Caritas, organizziamo pacchi alimentari, buoni spesa e forme di microcredito. C’è chi riceve il carbone per il riscaldamento e chi un sussidio per l’affitto. E poi offriamo borse di studio e attività in centri sociali, visto che molti ragazzi di famiglie sfollate non possono andare a scuola».

Si tratta di una presenza destinata a durare, e quindi a modificare stabilmente il volto della Chiesa turca?

«Sicuramente. Queste persone vorrebbero andarsene da qui, in Europa, negli Stati Uniti, in Australia, ma le porte dell’Occidente sono chiuse per loro, e la maggioranza non potrà tornare nei luoghi di origine. Dunque si stabilizzeranno. Già ora i cristiani rifugiati sono più numerosi di quelli locali, spesso anche più attivi, perché la loro è una fede che è stata messa alla prova dalla persecuzione».

Una rivoluzione per la Chiesa latina, già percepita in un certo senso come “straniera”…

«È vero. Questa era tradizionalmente la Chiesa degli europei, e non è stato attuato un sufficiente processo di inculturazione. Solo da poco abbiamo realizzato traduzioni in turco di testi liturgici e di formazione, che restano tuttavia largamente inadeguati, anche dal punto di vista della qualità. Abbiamo bisogno di operatori pastorali che imparino bene la lingua e si inseriscano in profondità nella cultura locale.

Il nodo fondamentale è quanto la Chiesa latina sia pronta a continuare a investire in questo contesto cruciale anche per il cristianesimo di oggi, oltre che luogo delle origini cristiane. Siamo in un crocevia da cui nessuno può prescindere, al confine tra Oriente e Occidente, dove i problemi dello sviluppo economico, dei modelli di civilizzazione, della convivenza tra le fedi sono al centro dell’attenzione. È un crogiolo di culture, un Paese ricchissimo di tradizioni con un islam variegato anche al suo interno, dove c’è molto da offrire ai cristiani locali, ma anche molto da ricevere».

Che cosa ha ricevuto, personalmente, in questi anni?

«Sul piano umano e culturale, vivere qui ha significato un allargamento ulteriore di orizzonti. Io frequento il Medio Oriente da quarant’anni, ma la presenza fissa mi ha permesso di comprendere meglio certe dinamiche che raramente coincidono con gli slogan dei media occidentali, i quali in genere semplificano una complessità interessante e spesso drammatica. Sul piano della fede, invece, essere una piccola minoranza in un contesto musulmano in un’escalation di autoaffermazione è una provocazione, che costringe a comprendere meglio che cosa ha il Vangelo da dire a ogni uomo».

Ma voi siete liberi di dirlo? C’è sufficiente libertà religiosa?

«Il governo pratica in linea di massima una politica di accettazione e rispetto, ma a livello locale spesso amministratori e forze dell’ordine si mettono di traverso. Restano i limiti legati al mancato riconoscimento giuridico della Chiesa latina, il che significa ad esempio che io non posso costruire un piccolo oratorio, o un centro giovanile per i rifugiati, perché tutto è ancora bloccato al trattato di Losanna del 1923. Per quanto riguarda le conversioni, le richieste ci sono, ma noi le accettiamo con molta prudenza».

Negli ultimi anni, con la svolta islamizzante del partito al governo, il clima per i cristiani è peggiorato?

«C’è un problema più generale, che è quello di garantire il pluralismo, mentre prevale una tendenza per cui la voce del più forte diventa l’unica. Una deriva di tipo autoritario e populista, che – come vediamo – rappresenta un problema globale e che qui in Turchia tocca anche tutte le altre minoranze».

Nelle tensioni incrociate che attraversano la regione, i cristiani come si pongono?

«Ne sono investiti direttamente, come milioni di altre persone. E sono arrabbiati per questa politica fatta sulla pelle della gente, per le ingerenze massicce e contraddittorie delle potenze straniere. Ma non dobbiamo dimenticare che destabilizzare il Medio Oriente significa destabilizzare anche l’Europa: è inutile che ci lamentiamo dei profughi e del terrorismo se poi non ci occupiamo di questi Paesi, che sono i nostri vicini di casa».