Il missionario dei sateré mawé

Il missionario dei sateré mawé

Quando padre Uggé arrivò nel 1971 rischiavano di scomparire. Oggi sono dieci volte di più grazie alla Scuola indigena

 

Attracca con la barca e sulla sponda compaiono subito i bambini. Del resto è un po’ difficile passare inosservati in un villaggio come Simao, spuntato all’improvviso dopo l’ennesima ansa del fiume. E lo diventa ancora di più se ci arrivi in compagnia del missionario del Pime che ha cambiato la sorte dei sateré mawé, uno tra i 305 popoli dell’Amazzonia brasiliana.
Lodigiano di Castiglione d’Adda, 76 anni compiuti, è dal 1971 che padre Enrico Uggé spende la sua vita tra gli indios della diocesi di Parintins. «Quando arrivai il vescovo Arcangelo Cerqua mi disse: “Ci sono dei villaggi che da più di quarant’anni nessuno visita, vedi tu che cosa riesci a fare…”». Con una barchetta cominciò a risalire il Rio Andirá da Barreirinha fino alle più piccole comunità. Da allora sono cambiati i motori (oggi un po’ più potenti e veloci, grazie al cielo), ma di villaggi da visitare padre Enrico continua ad averne decine, sempre avanti indietro lungo quel fiume. E la sua è una storia emblematica di un po’ tutta la pastorale indigena in Amazzonia e delle sfide intorno alle quali il Sinodo voluto da Papa Francesco sarà chiamato a confrontarsi.

Erano un popolo che stava scomparendo i sateré mawé quando arrivò padre Enrico: erano rimasti poco più di un migliaio, abbandonati a se stessi e minacciati da chi li imbrogliava con qualche amaca in cambio delle loro terre. «C’erano anche grossi problemi di salute – ricorda Uggé -, soprattutto la tubercolosi e il morbillo che uccidevano i bambini. La prima missione per me è stata prendermene cura. Ne parlai anche con un giudice a Parintins che mi rispose: ma sono brasiliani? Sono state parole come queste a spingermi ad amarli sempre di più».

Erano già cristiani i sateré mawé e non solo sulla carta. «Avevano delle cappelline in fango e in argilla – racconta il missionario -. Nel Seicento qui i gesuiti avevano dato vita agli aldeamentos, missioni tra gli indios molto simili alle reduciones (le realtà raccontate dal celebre film Mission, ndr). Dopo però che i gesuiti furono cacciati le presenze missionarie furono sempre sporadiche. Eppure quando sono arrivato io alcuni cantavano ancora le litanie in latino. Un giorno li ho visti frugare nella mia valigetta per la Messa. “Volevamo sapere se eri un missionario vero – mi hanno detto -. Abbiamo visto che nella tua valigetta c’è il rosario, c’è il calice della Messa: proprio come ci avevano detto i nostri anziani”».

Arrivare dove Dio c’è già, ma abita anche dentro tanti aspetti delle loro culture tradizionali. «Mi sono posto subito la questione del significato dei loro riti e delle loro leggende – spiega padre Uggé -. Se io missionario parlo di Dio loro pensano a Tupana, l’essere supremo della loro cultura. E io devo conoscere l’idea che hanno di Dio insieme a tanti altri aspetti della loro visione del mondo. Così con un’anziana andavo di villaggio in villaggio a raccogliere i loro racconti che abbiamo inciso su alcuni nastri. Non pensate però a un’intervista: ci vuole tempo, il momento giusto, perché loro rivivono quello che ti raccontano».

Da questi incontri è cominciata la rinascita dei sateré mawé. «Ho detto loro: la vostra arma non è litigare con il commerciante che vi vende quattro lampadine per un cesto di farina. Dovete imparare a leggere e scrivere, per capire il mondo che arriva dal fiume. All’inizio ho mandato qualche ragazzo a studiare a Barreirinha; poi questi sono diventati i maestri. Con il tuxawa Donato, uno dei loro capi, abbiamo pensato a creare un posto dove i sateré mawé possano sentirsi a casa, studiare la propria lingua ma imparare anche tutto ciò che serve loro per sentirsi come gli altri quando vanno in città, senza vergognarsi di essere indios».

Ha festeggiato l’anno scorso i trent’anni di vita la Scuola indigena San Pedro, un posto dove si imparano le tecniche agricole ma anche la matematica e il portoghese. Partì con trenta adolescenti; oggi tra gli interni che dormono qui sull’amaca perché il villaggio è troppo lontano e quelli che arrivano ogni mattina con la canoa sono diventati più di duecento. Più o meno la stessa crescita che ha conosciuto il popolo sateré mawé, oggi dieci volte più numeroso di quarant’anni fa. Un passaggio decisivo è avvenuto negli anni Ottanta, quando gli indios del rio Andirá, insieme a padre Uggé, hanno ottenuto dal governo del Brasile il riconoscimento dei diritti sulle loro terre. Oggi la loro è quindi un’area indigena garantita: sulla carta nessuno può venire a sfruttare questo territorio. Ma l’equilibrio resta lo stesso delicato perché ci sono nuove insidie che oggi si chiamano alcol, droga e tanto altro che arriva comunque fin qui.

È proprio il tuxawa Donato a raccontarci la sua preoccupazione per i giovani. «Molti non si rendono conto dei pericoli – spiega -. Finiscono per prendere per oro colato tutto quanto arriva dal fiume e questo non è giusto. Non voglio che la mia gente si lasci andare al vizio dell’alcol o al fatalismo». Ecco perché la Scuola San Pedro resta un luogo importante. Seguiamo il tuxawa sotto la grande tettoia, dove ci aspettano per la rappresentazione della leggenda del guaranà, il frutto sacro per questa cultura indigena. Ma ci si prepara anche alla tucandeira, il rito di iniziazione maschile per l’ingresso nell’età adulta: una prova di forza e di coraggio che consiste nell’indossare un guanto riempito di formiche velenose, accompagnati da una danza rituale. Anche padre Enrico è accanto agli adolescenti che compiono questo rito. «Hanno fatto degli studi sul veleno: è doloroso ma rafforza il sistema immunitario – commenta -. La stessa scienza si sta accorgendo che c’è una saggezza profonda dentro a queste tradizioni…».

La tucandeira più impegnativa – oggi, per questi ragazzi – ha però a che fare anche con le «formiche» di cui parlava il tuxawa Donato. La sfida del rapporto tra la tradizione e la modernità che si affaccia in Amazzonia, con le sue opportunità ma anche tante contraddizioni. «Gli anziani vengono da me e dicono: le affidiamo i nostri figli – racconta padre Uggé -, noi oggi non riusciamo più a trasmettere i valori della nostra tradizione». Come non lasciarsi schiacciare? Sarà uno dei grandi temi del Sinodo di ottobre, per il quale il missionario del Rio Andirá ha comunque in testa una priorità chiara. La capiamo quando ci porta alla sera in chiesa a celebrare la Messa coi suoi ragazzi; varchiamo la Porta della Misericordia – voluta da padre Enrico perché «il Giubileo doveva arrivare anche tra i sateré mawé» – e inizia la celebrazione su un altare che ha anche il guaranà raffigurato sulla tovaglia.

«L’evangelizzazione deve fare un passo più consistente per portare l’eucaristia in queste comunità – spiega -. Gesù ci ha detto: fate questo in memoria di me. Ma se il prete ha decine di villaggi distanti tra loro ore di barca e viene solo qualche volta all’anno come si fa? Dobbiamo trovare una strada. Tenendo presente che in queste comunità ci sono già dei responsabili, persone che hanno famiglia e hanno dato prova di educare alla fede i loro figli. Io li vedo come i presbiteri narrati dalle lettere di san Paolo: anziani stimati dalla comunità a cui conferire il sacerdozio; certamente con un’adeguata preparazione e un accompagnamento: non tanto percorsi filosofici ma costruiti su misura per queste comunità».

 Intanto il missionario del Pime si è portato avanti costruendo tante chiesette in muratura nei villaggi. «Perché l’eucaristia ha bisogno di un posto bello – si infervora -. Certo, anche in una prigione si può dire la Messa, ma non siamo al tempo delle catacombe. La gente ha bisogno di vedere la propria fede». Le immagini sulle pareti le dipinge lui con i racconti della vita di Gesù che si intrecciano con i miti dei sateré mawé: del resto non sono pescatori anche loro? Senza perdere di vista, però, la novità portata da Gesù; a sostituire il vino dell’eucaristia con il succo del guaranà – per esempio – padre Enrico non ci pensa proprio: «Nemmeno loro lo vogliono. Dicono: Gesù ci ha dato il pane e il vino, se ha fatto così lo rispettiamo. È un segno di unità per tutti i popoli. E poi la Messa non è solo l’offerta di un cibo, è il mistero di Gesù che si compie sulla Croce».

Però dal Sinodo lui la svolta di una Chiesa dal volto amazzonico se l’aspetta. «Al Concilio di Gerusalemme Paolo e Pietro discutevano, ma poi si sono detti: bene, che cosa facciamo? Ecco, l’importante è che non finisca dicendo: dobbiamo parlarne ancora … Al Concilio di Efeso c’era un popolo che fremeva fuori quando hanno proclamato Maria come la Theotokos, la Madre di Dio. La stessa attesa c’è oggi in Amazzonia».