AL DI LA’ DEL MEKONG
In morte di un missionario. La croce, il calice e la lingua Lahu

In morte di un missionario. La croce, il calice e la lingua Lahu

Nella sua stanza ogni oggetto, foglio di carta, documento, le centinaia di vecchie foto, tutto, era riconducibile alla missione che padre Giovanni aveva portato avanti per 47 anni. Come se nella sua vita non vi fosse stato altro

 

«Il missionario è l’uomo della fede
nasce dalla fede,
vive nella fede,
per questa volentieri lavora, patisce e muore»
padre Paolo Manna

Entrare nella camera di un missionario poco dopo la sua morte è un’esperienza che riempie di stupore e gratitudine. Mi è capitato ieri presso la canonica della parrocchia di Fang, nella provincia di Chiang Mai, Thailandia del nord, dopo che lo scorso 2 maggio, in quella stessa camera, padre Giovanni Zimbaldi si è spento all’età di 90 anni.

Dal breve profilo biografico pubblicato qualche giorno fa si comprende quanto feconda sia stata l’esperienza missionaria di padre Giovanni, prima in Myanmar per 8 anni e poi in Thailandia per altri 47 anni, fino alla morte. Con le etnie dei Lahu e degli Akha. E si comprende anche perché alle esequie, lo scorso 8 maggio, abbiano partecipato circa 2000 fedeli, due vescovi, 60 preti e altrettante religiose, accorsi per l’ultimo saluto al loro padre nella fede.

Ebbene, ciò che mi ha stupito entrando nella sua camera è stata la modestia del luogo. Ogni oggetto, foglio di carta, documento, le centinaia di vecchie foto, tutto, era riconducibile alla missione che Giovanni aveva portato avanti per 47 anni. Come se nella sua vita non vi fosse stato altro. Un’unica preoccupazione, un unico interesse, un unico amore, la missione. A dirmelo con forza è stato il crocifisso appeso alla parete di fronte al letto, ricevuto il giorno della sua prima partenza per il Myanmar e ben visibile per lui, nei giorni della malattia quando, disteso su quel letto, ormai divenuto altare, offriva tutto di sé non più a parole, ma solo volgendo lo sguardo al Cristo in croce.

Poco prima della ricognizione della camera, insieme ad alcuni confratelli, abbiamo voluto celebrare l’Eucarestia. Il calice che ho avuto tra le mani era quello che padre Giovanni aveva ricevuto in dono dai suoi genitori il giorno dell’ordinazione sacerdotale. Incise sul rivestimento sottostante il piedistallo, ho notato una scritta, ben visibile al momento dell’elevazione. Si ricorda anzitutto la data dell’ordinazione, il 28 giugno 1953. Poi alcune parole incise lungo il perimetro a forma circolare, esprimono la gratitudine di mamma e papà al Signore per l’ordinazione del figlio. «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? – si legge nel salmo 115 – Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore». È quel che padre Giovanni ha fatto per 66 anni, dal giorno dell’ordinazione fino alla morte.

Tra gli effetti personali infatti abbiamo trovato i registri delle messe, dalla prima celebrata in ringraziamento per il sacramento dell’Ordine, alle ultime, fino a che aveva la forza di annotarlo sul quaderno. Quelle pagine, giorno dopo giorno, messa dopo messa, sono la sua storia. Padre Giovanni annotava la data, l’intenzione per cui celebrava e il luogo. V’è traccia delle sante messe celebrate nella prima stagione missionaria in Myanmar fino a quelle dell’ultimo periodo di vita. La sua storia è la storia di quelle celebrazioni, giorno dopo giorno.

Nella ricognizione, sapevamo inoltre che avremmo trovato le grammatiche, i dizionari e i testi sacri in lingua Lahu, appresa da padre Giovanni negli anni trascorsi in Myanmar. Fu quest’etnia la sua seconda famiglia, la sua seconda casa. Ha studiato la lingua Lahu senza libri e senza scuola, ma dalla gente e con una dedizione personale che ben presto fu in grado di tradurre testi per la liturgia e per la catechesi, indispensabili per accompagnare questa sua gente all’incontro con Cristo.

I luoghi allora impervi da lui attraversati e la lingua studiata mi fanno dire che la missione non è sempre e dovunque. Suppone piuttosto la partenza, lasciare la propria terra per arrivare là dove il Signore ci invia. Partire per tutta la vita o non partire, non è la stessa cosa. Imparare una lingua simile o continuare con la propria, non è la stessa cosa.

Il giorno del suo funerale, prima e dopo la celebrazione, ho stretto centinaia di mani, callose, indurite dall’estenuante lavoro. I Lahu sono prevalentemente contadini e i loro campi non si estendono all’orizzonte, ma si arrampicano lungo i pendii delle colline del nord. Cercavo di stringerle bene quelle mani, per far passare un po’ di quella giustizia che quella gente merita. Padre Giovanni ha messo tra quelle mani la vita di Dio. Ha viaggiato instancabilmente, ha studiato, ha tradotto e stampato libri, ha predicato e spiegato la Parola, ha conosciuto e amato tutti, purché fossero guadagnati a Cristo. Ha messo nelle loro mani il suo/Suo corpo. L’Unico in grado di rendere giustizia a quella fatica, a quelle mani indurite da sentieri sempre troppo ripidi.

Tra gli effetti personali abbiamo trovato anche i suoi diari spirituali. Ne ho sfogliate alcune pagine, ma andrebbero letti attentamente per far emergere la figura umana e spirituale, la durezza dei modi e il candore dell’anima di padre Giovanni. «Credo di non farcela più», ho letto. Ma nelle pagine successive più fitto riaffiorava il continuo desiderio della santità. Sono pagine che documentano la sua lotta contro il male/peccato. In lui, nei suoi collaboratori. Quel male che non sempre è riuscito a vincere, ma che mai ha spento la sua carità.

Padre Giovanni, secondo le sue intenzioni, è stato sepolto nel piccolo cimitero della parrocchia di Fang, presso un villaggio della “sua” etnia, i Lahu. Servo buono e fedele, nato dalla fede. Che per essa ha lavorato e patito. Grazie, padre Giovanni!