Gerusalemme, perché lo scontro su Sheikh Jarrah

Gerusalemme, perché lo scontro su Sheikh Jarrah

Simboli religiosi branditi come trofei. Insieme alla pretesa di risolvere con una disputa giudiziaria sulla proprietà di alcune case le ferite lasciate aperte a Gerusalemme dalle guerre del Novecento. C’è ancora una volta lo sguardo chiuso sull’identità dell’altro dietro all’alta tensione che nelle ultime ore è di nuovo sfociata in violenza nella Città Santa

 

Gerusalemme è ancora in stato d’assedio in queste ore dopo le violenze esplose ieri sera intorno alla Spianata delle Moschee nell’ultimo venerdì del Ramadan. La tensione resta alta perché per lunedì è in programma una nuova udienza alla Corte Suprema israeliana sulla vicenda dello sfratto decretato per alcune famiglie arabe dal quartiere di Sheikh Jarrah, dove alcune organizzazioni della destra religiosa ebraica rivendicano delle proprietà. Proprio lunedì – inoltre -cade il Jerusalem Day, l’annuale giornata di commemorazione della “riunificazione” di Gerusalemme dopo la conquista della Città Vecchia e dei quartieri orientali da parte dell’esercito con la stella di Davide nella Guerra dei sei giorni del 1967. E da anni – ormai – il Jerusalem Day è l’occasione per le parate provocatorie dei gruppi della destra religiosa ebraica che, protetti dalla polizia, sfilano nei quartieri arabi della città sostanzialmente per una prova di forza. Non ci vuole molto a capire, dunque, che ci attendono altre ore molto calde a Gerusalemme.

Sheikh Jarrah: il luogo delle due tombe

Per capire davvero quanto sta accadendo occorre guardare dentro alla vicenda di Sheikh Jarrah, che ha radici molto lontane e si trascina ormai da decenni. Sheikh Jarrah è un quartiere che sorge a nord della Città Vecchia, lungo Nablus Road, a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla Porta di Damasco. Deve il suo nome alla tomba del Jarrah (in arabo: il chirurgo) che era il soprannome di Hussam al-Din, il medico personale di Saladino, il grande generale arabo che a Gerusalemme sconfisse i crociati nel XII secolo. Intorno alla sua tomba, quando ancora questa zona fuori dalla Città Vecchia di Gerusalemme era campagna, è cresciuto un piccolo villaggio arabo. Solo che – come accade praticamente sempre in Terra Santa – anche la piccola comunità ebraica che durante la diaspora è sempre rimasta a Gerusalemme in quei campi venerava un altro minuscolo mausoleo: quello di Shimon HaTzadik, Simone il Giusto, uno dei grandi saggi della Torah vissuto in epoca elllenistica (secondo la tradizione ebraica avrebbe accolto lui Alessandro Magno a Gerusalemme).

In epoca ottomana la presenza di due tombe di personalità appartenenti a fedi diverse per secoli non è stata un gran problema: le cronache ebraiche raccontano che la chiave della tomba di Shimon HaTzadik la custodisse un «ismaelita» che la dava ai pellegrini ebrei quando arrivavano (un po’ come le chiavi della basilica del Santo Sepolcro). Del resto fino all’inizio dell’Ottocento quello era proprio un pugno di case in mezzo ai campi sulla strada che da Gerusalemme esce per salire verso Nablus. Le cose cominciarono però a cambiare nella seconda metà dell’Ottocento, quando Gerusalemme cominciò a crescere e alcune delle famiglie arabe più in vista cominciarono a costruire le loro ville in quella zona, facendo crescere a catena anche il villaggio. Nello stesso tempo, però, a partire dal 1880 con la prima immigrazione sionista, anche la presenza ebraica a Gerusalemme cominciava ad aumentare e a ritrovare anche un maggiore senso di identità. E fu in questo contesto che i rabbini che guidavano le due comunità dei sefarditi e degli ashkenaziti ottennero dagli ottomani il permesso di acquistare il luogo della tomba di Shimon HaTzadik, insieme a una piccola porzione di terreno circostante.

Fu così che nel villaggio di Sheikh Jarrah, accanto alla presenza arabo musulmana, cominciò a crescere anche una comunità (minoritaria) di famiglie ebree. A cui poi si andarono ad aggiungere persino dei cristiani venuti dall’America: non a caso tuttora qui sorgono l’American Colony, uno dei più famosi alberghi di Gerusalemme, e le rappresentanze di tutta una serie di istituzioni internazionali. Sulla presenza ebraica nei due micro-quartieri di Shimon HaTzadik e Nahal Shimon vanno però aggiunti due elementi: restò sempre una presenza minoritaria e si trattava di famiglie molto povere di ebrei yemeniti, esuli di Aleppo o immigrati georgiani. Un rapporto del 1938 dell’Agenzia ebraica sui due quartieri descriveva le loro case come «inadatte a essere abitate da persone».

Il dramma del 1948

La situazione cambiò quando nel maggio 1948, subito dopo la proclamazione dello Stato di Israele, a Gerusalemme scoppiò la guerra. La Città Santa – che secondo il Piano dell’Onu avrebbe dovuto essere amministrata sotto tutela internazionale proprio per garantire la convivenza tra le due comunità – si sarebbe ritrovata invece divisa in due, con il controllo giordano della parte Est e della Città Vecchia e il controllo delle forze armate del neonato Stato di Israele a Ovest. Gerusalemme si spaccò in due con la linea del fronte che per mesi attraversò la città. Ma ancora prima dell’inizio ufficiale delle ostilità Sheikh Jarrah si ritrovò testimone di uno dei più gravi episodi di violenza degli ultimi giorni del Mandato britannico: l’attacco al convoglio ebraico che ogni giorno percorreva Nablus Road per raggiungere sul monte Scopus l’Università ebraica e l’ospedale di Hadassah. Fu proprio dopo questa strage costata la vita a 78 persone – in quella che gli arabi definirono una ritorsione per il massacro compiuto pochi giorni prima da milizie para-militari ebraiche nel villaggio arabo di Deir Yassin, con la morte di 107 civili arabi – che l’Agenzia ebraica e gli inglesi decisero di evacuare gli ebrei da Sheikh Jarrah, trasferendoli nella parte ovest della città, nei quartieri dove più nutrita era la presenza ebraica. Ma questo avveniva proprio mentre – specularmente – anche da Gerusalemme ovest migliaia di arabi si spostavano nei quartieri a est, perché la guerra era nell’aria e dunque anche loro temevano per la propria incolumità.

Quella guerra sarebbe durata a lungo e per entrambi sarebbe finita da profughi con l’impossibilità di ritornare nelle proprie case in una città che la Linea Verde, la linea armistiziale tracciata nel 1949, avrebbe diviso in due per 18 anni: Israele da una parte e la Giordania dall’altra. E tanto a Gerusalemme Est quanto a Gerusalemme Ovest le case rimaste vuote furono date ai profughi.

A Sheikh Jarrah, in particolare, nel 1956 l’autorità giordana competente insieme all’Unrwa (l’agenzia Onu di assistenza ai profughi) su un terreno che era stato di proprietà ebraica ne costruì anche di nuove per 28 famiglie arabe sfollate da Gerusalemme Ovest. Finché nel 1967 la Guerra dei Sei giorni arrivò a cambiare nuovamente la situazione sul terreno: la vittoria di Israele “riunificò” Gerusalemme. E il problema delle proprietà abbandonate tornò a porsi.

Il governo israeliano di allora non aveva alcun interesse a scoperchiare la pentola: avrebbe voluto dire porre all’attenzione internazionale anche la questione degli arabi costretti ad abbandonare Gerusalemme Ovest. Ma – soprattutto a partire dagli anni Novanta – della questione di Sheikh Jarrah si sono impossessati alcuni gruppi della destra religiosa ebraica che, acquistati dalle famiglie che vivevano a Nahal Shimon i titoli delle loro vecchie proprietà, ne hanno fatto una bandiera identitaria portando la questione nei tribunali.

L’esproprio per via giudiziaria

Proprio qui sta l’assurdità della vicenda di Sheikh Jarrah: la pretesa di trattare come se fosse una normale compravendita immobiliare una vicenda segnata da una guerra. E il problema è che – con una politica incapace di fare i conti con il dato di realtà rappresentato dal fatto che un terzo della popolazione di Gerusalemme è araba – anche la giustizia israeliana è andata avanti a non considerare l’eccezionalità di questa situazione. Cosi si è arrivati agli sfratti che stanno infiammando gli animi a Gerusalemme e che il nuovo partito dei Nazionalisti religiosi di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir sta cavalcando, soffiando su un fuoco già acceso.

Giovedì Ben Gvir è andato ad aprire un suo “ufficio di rappresentanza” a Sheikh Jarrah, piazzando un tavolino di fianco a quelli dell’iftar, la cena con cui a fine giornata i musulmani rompono il digiuno alla fine delle giornate del Ramadan. I risultati di questa provocazione si sono visti ieri sera alla Spianata delle moschee.

Un’ultima osservazione: in tutti i negoziati con i palestinesi Israele ha sempre definito una provocazione inaccettabile il “diritto al ritorno” dei palestinesi nelle case abbandonate nel 1948. Ma è esattamente quanto accadrebbe con gli sfratti a Sheikh Jarrah. Con uno storia dolorosa palesemente strumentalizzata per mascherare la legge del più forte.