La «caccia al curdo» e il bivio della Turchia

La «caccia al curdo» e il bivio della Turchia

L’ANALISI
Erdoğan è travolto dal cambiamento che lui stesso ha contribuito ad innescare. Ma è proprio ora che la Turchia è chiamata a dimostrare ciò che può essere

Centoventotto sedi del partito filo-curdo Hdp vandalizzate in tutta la Turchia, negozi appartenenti a cittadini curdi dati alle fiamme, persino casi di linciaggio e attacchi alle persone. È il sinistro bilancio della spirale di violenza in cui sta sprofondando in queste ore il Paese della mezzaluna, dove all’improvviso sembrano essere risorti i peggiori fantasmi del passato. La “caccia al curdo” per le strade di numerose città, tra cui Istanbul e Ankara, si è scatenata in reazione all’ennesimo attacco del Pkk (i guerriglieri considerati terroristi da Ankara) che ha ucciso 16 militari turchi nel Sud-est del Paese. L’azione, la più sanguinosa da quando a luglio era saltato il cessate il fuoco con i separatisti, ha spinto il governo a promettere di “spazzare via il Pkk”. E, soprattutto, ha dato la sponda alle “marce anti-terrorismo” trasformatesi in realtà in assalti anti-curdi, in cui si è incanalato un sentimento nazionalista deviato, purtroppo ancora latente in fette significative della società turca.

Particolarmente inquietante (oltre all’orrore della violenza in sé) è vedere accadere questi fatti proprio mentre ricorrono i sessant’anni dei pogrom che, tra il 6 e il 7 settembre del 1955, colpirono la comunità cristiana greco-ortodossa (i cosiddetti Rum) di Istanbul. Le migliaia di case e negozi dati alle fiamme, le 73 chiese danneggiate, le decine di morti e centinaia di feriti che si contarono allora diedero il colpo di grazia alla comunità Rum istanbuliota, provocando l’ennesimo esodo di una minoranza, in una scia di epurazione nazionalistica che ha funestato il Paese per un intero secolo.

Per questo l’escalation contro i curdi – con la rottura di un cessate il fuoco che durava dal 2013, dopo un trentennio di conflitto – è oggi ancor più sconfortante. È evidente il tentativo in atto da parte dell’Akp del presidente Erdoğan di criminalizzare e indebolire il partito filo-curdo Hdp che alle elezioni di giugno aveva ottenuto un clamoroso 12%, superando per la prima volta la soglia di ingresso al Parlamento. Ora, con le nuove consultazioni di novembre alle porte, il partito del “sultano” punta a recuperare i voti perduti presentandosi come l’unico baluardo di stabilità contro il terrorismo. E strizzando l’occhio alle frange più nazionaliste e arcaiche.

Ciò che forse è meno evidente è invece una dinamica interessante e cruciale in atto nel Paese, che vede Erdoğan sopraffatto da alcune aperture da lui stesso favorite negli ultimi 10-12 anni. A cominciare proprio dalla questione curda: la road map per la pace ha visto un’inedita collaborazione con il leader del Pkk in carcere Abdullah Ocalan, mentre sotto il governo dell’Akp sono state approvate norme che, dopo decenni di abusi, avevano cominciato a riconoscere alcuni diritti fondamentali a questa minoranza, dalla possibilità di difendersi in tribunale usando la propria lingua a quello di parlarla per esempio nei comizi elettorali. Aperture che hanno favorito l’emancipazione politica e sociale del movimento filo-curdo il quale, intercettando esigenze trasversali di cambiamento in atto nella società, ha conosciuto l’ascesa fulminea a cui si è assistito nell’ultimo anno.

Similmente, i gesti simbolici ma anche concreti compiuti per la prima volta da Erdoğan nei confronti di altre minoranze etniche e religiose – come la restituzione di alcuni terreni e proprietà alle Chiese o la concessione di celebrare funzioni religiose in siti simbolici, dopo un secolo – hanno senza dubbio, tra mille contraddizioni, rotto dei tabù facendo sgretolare all’interno della società muri di silenzi, bugie e pregiudizi. Le parti migliori della Turchia, poi, hanno fatto il resto, portando le istanze di rinnovamento nelle università, nei circoli intellettuali, nei media, fino alle piazze. Un flusso incontrollato che ha rotto gli argini in cui si era forse pensato di relegarlo. Si può dire – semplificando ma non troppo – che Erdoğan sia stato travolto dal cambiamento che lui stesso ha contribuito ad innescare. I tentativi, negli ultimi due anni, di fermare questa tendenza a colpi di manganelli e leggi liberticide hanno decretato la definitiva deriva politica del “sultano”. E ora che la posta in gioco si fa sempre più alta, la scelta di portare la lotta per il potere fino alle estreme conseguenze, strumentalizzando i lati oscuri che resistono nel Paese, rende questa partita pericolosissima.

Eppure, è proprio adesso che la Turchia è chiamata a dimostrare ciò che può essere, sfoderando gli anticorpi, in termini di democrazia e rispetto per i diritti di cittadinanza, che in questi anni ha saputo maturare. Per la prima volta dopo sessant’anni, qualche giorno fa nella chiesa greco ortodossa Panaya di Istanbul si è tenuta una divina liturgia in memoria proprio dei pogrom del 1955. Alla cerimonia, inserita in una due giorni di (inediti!) dibattiti pubblici sull’argomento, ha preso parte tra l’altro Selina Doğan, parlamentare di origine armena tra i quattro deputati cristiani eletti a giugno. Lo stesso voto che decretò l’elezione di due yazidi, un rom e un esponente della quasi sconosciuta tribù semita dei malamis. Tutti segnali che il cambiamento, nel Paese, è in atto. Ed è cruciale che non sia offuscato dal fumo nero delle sedi di partito (o di giornali) date alle fiamme, né da quello delle bombe di Ankara contro le postazioni curde. La voce dei turchi che vogliono una nazione unita, in pace con le sue diversità, deve sovrastare gli slogan dei violenti. Questa, oggi, è l’unica via per salvare la Turchia dal baratro.

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Foto: Turkish-Kurdish reconciliation / Flickr / Julia Buzaud