Terra Santa di ferite e di speranza

Terra Santa di ferite e di speranza

Parla padre Francesco Patton, da maggio alla guida della Custodia di Terra Santa: «Il primo impegno a Gerusalemme? Amare la sua complessità. I politici? Si occupino di pace vicina alla vita concreta»

 

A Gerusalemme è arrivato in punta di piedi, presentandosi ai confratelli come un “novizio”, nonostante i 52 anni di età e i compiti importanti già svolti nell’ordine dei frati minori. Del resto, la sua nomina a Custode di Terra Santa – nel maggio scorso – ha destato più di una sorpresa: fino ad allora padre Francesco Patton era infatti un francescano trentino che a Gerusalemme e nei Luoghi Santi si era recato solo da pellegrino. Lontano dal contesto politico e religioso così incandescente della Città Santa. Agli occhi di chi vive in Medio Oriente, dunque, anche lui è una guida pescata «quasi alla fine del mondo», come ama dire di sé Papa Francesco. E ora, a sei mesi di distanza dal suo ingresso, si appresta a vivere in Terra Santa il suo primo Natale.

Padre Patton che cosa le è rimasto più impresso in questi primi sei mesi a Gerusalemme?

«La complessità e insieme il fascino di questa città. Una complessità che tocca tanti ambiti: quello religioso, ovviamente, ma anche tutta la sfera politica e culturale. L’incontro con popoli e confessioni diversi a Gerusalemme è una dimensione quotidiana, ogni esperienza chiama in causa tanti livelli».

Ed è un’esperienza che costa fatica?

È una complessità dentro alla quale, a poco a poco, si scoprono tanto le ricchezze quanto i limiti. Ma io credo che si tratti soprattutto di una complessità da amare. Penso, ad esempio, ai rapporti con le altre Chiese, che qui a Gerusalemme sono molto più frequenti che altrove: certamente costano fatica, ma permettono di aprire gli occhi su mondi per noi nuovi scoprendo tanti doni inaspettati».

Vale anche per i rapporti con ebrei e musulmani? Veniamo da settimane di polemiche aspre all’Unesco persino sul nome da dare ai Luoghi Santi di ciascuno…

«Sì, anche con ebrei e musulmani guardare insieme alla complessità di questa città è possibile. La mia esperienza su questo, è ancora solo al punto iniziale; però vedo che quando in gioco ci sono storie che chiamano in causa i rapporti concreti tra le persone, l’incontro c’è ed è profondo. Penso ad esempio alla realtà delle nostre scuole della Custodia di Terra Santa: intorno all’educare sperimentiamo un affezionarsi da parte di tutti. A Emmaus, per esempio, un gruppo di famiglie musulmane recentemente ci ha chiesto di aprire un asilo. Come sono tante le famiglie ebree che mandano i loro ragazzi a studiare alla nostra Scuola musicale del Magnificat. Sono questi incontri concreti tra le persone il volto più bello di Gerusalemme».

Osservata con gli occhi della cronaca, però, Gerusalemme oggi appare più “periferia” rispetto a ieri. Dopo tante parole spese, dopo le speranze disilluse, la comunità internazionale, ogni giorno che passa, sembra avere meno voglia di occuparsi dei conflitti che attraversano la Città Santa…

«Nella cronaca e nelle discussioni di politica internazionale c’è sicuramente meno attenzione intorno a ciò che accade qui. Ed è vero che, rispetto ai drammi che si consumano in altre aree del Medio Oriente, oggi Gerusalemme può apparire un luogo relativamente tranquillo; in qualche modo questo spiega un minore interesse. Per i credenti, però – cristiani, ebrei e musulmani – questa città rimane il centro; il nostro sguardo è diverso da quello della cronaca»

Il disinteresse dei media tocca anche un fenomeno come l’Intifada: in un anno ha fatto quasi 300 vittime, ma le sue violenze faticano a fare notizia fuori da Gerusalemme. La preoccupa questo fatto?

«Sinceramente non so se questo sia davvero un male. Queste violenze esistono, sono fatti gravi, certo; ma visti da qui appaiono comunque fenomeni circoscritti. In Terra Santa oggi non viviamo in un clima di violenza dilagante; arrivando a Gerusalemme non ho trovato un contesto poi così diverso da quello delle città italiane…».

La pace tra israeliani e palestinesi,  però, appare sempre lontana. Gli incontri politici per promuovere iniziative di dialogo latitano. Veder riuniti tanti leader mondiali per il funerale di Shimon Peres è apparso quasi un simbolo triste…

«La nostra speranza è che i responsabili delle nazioni tornino presto a radunarsi anche per parlare davvero di pace in Terra Santa. Credo, però, che conti molto il modo in cui si guarda alla pace e a questo conflitto. Ciò di cui davvero sentiamo il bisogno sono dialoghi e negoziati attenti alla vita concreta delle persone che abitano questa terra, senza perdersi dietro a visioni ideologiche. Solo così la pace potrà fare passi avanti a Gerusalemme».

Tra i problemi di oggi in Terra Santa c’è anche il calo sensibile dei pellegrini cristiani.

«È una tendenza che dura da qualche anno e riguarda specificamente i pellegrini provenienti dai Paesi occidentali. Parallelamente – infatti – assistiamo a un aumento dei fedeli che giungono dall’Asia, dall’Africa (penso a Paesi come la Nigeria o il Kenya), dalla Russia e dal resto dell’Europa dell’Est. È vero, però, che i numeri generali diminuiscono: i dati del 2015 parlano di una diminuzione del 25% dall’Italia e la tendenza è continuata anche nel 2016».

Perché dall’Italia si viene meno in pellegrinaggio in Terra Santa?

«Un primo motivo è legato alla paura: le guide che arrivano qui a Gerusalemme raccontano di gruppi che inizialmente erano di 50 persone e che alla fine diventano di 20, magari perché alla televisione è arrivata qualche notizia legata a fatti di sangue. Un altro fattore importante è la crisi economica, che come sappiamo tutti continua a farsi sentire. Ma insieme a questo io credo che dobbiamo cominciare a fare i conti anche con la perdita del senso della fede tra la nostra gente. Perché è quando viene a mancare la fede che si può tranquillamente andare a fare turismo altrove, anziché intraprendere un pellegrinaggio in Terra Santa. Lo spiega bene Zygmunt Bauman: un pellegrino con una meta si mette in cammino fidandosi; il turista, invece, si muove seguendo la carta di credito».

Nella sua giurisdizione di Custode di Terra Santa vi sono anche i conventi della Siria, oggi insanguinati dalla guerra. Qualche settimana fa, insieme al ministro generale dei frati minori Michael Perry, avete diffuso un appello chiedendo la creazione di una zona di sicurezza ad Aleppo. La guerra però continua, in maniera sempre più sanguinosa. Come uscire da questa situazione?

«La preoccupazione che ci ha spinto a lanciare l’appello è di tipo umanitario: non siamo politici, ma sentiamo i racconti della sofferenza della gente ad Aleppo. Vediamo la distruzione, udiamo il frastuono dei mortai e dei bombardamenti. Coi nostri frati che si trovano là asciughiamo le lacrime e celebriamo i funerali. È a partire da tutto questo che ai responsabili delle nazioni diciamo: fate tutto quanto è possibile per far cessare questa guerra, perché a pagarne il prezzo è solo la gente comune. In quel testo suggerivamo un’idea, a partire da alcune esperienze del passato; sappiamo bene, però, che per la guerra in Siria vanno ricercate soluzioni ad hoc. È un ginepraio unico di posizioni e interessi. E finché la comunità internazionale non troverà un accordo, non si potrà venire fuori da questo incubo».

Lei da Gerusalemme è in contatto costante anche con le comunità cristiane presenti in Siria. Che cosa la colpisce di più nei loro racconti?

«Scoprire gente che riesce a resistere e a conservare la speranza anche in una situazione così difficile. E poi mi colpisce l’impegno dei pastori delle comunità locali per mantenere il cuore della gente libero dall’odio. Perché quando questa guerra terribile un giorno sarà finita non ci sarà solo la sfida della ricostruzione materiale; occorrerà ricostruire anche la fiducia e la riconciliazione tra le persone. Ecco, lo sforzo di noi francescani e di tante altre realtà cristiane in Siria oggi è proprio questo: tener viva la speranza di futuro, mantenendo il cuore libero dall’odio».

Gerusalemme è il luogo da cui l’evangelizzazione ha avuto inizio. Pur tra tante difficoltà, che messaggio può dare ancora oggi questa città alla missione ad gentes?

«Lo stesso messaggio degli inizi e cioè che la missione non la costruiamo noi, ma solo l’azione dello Spirito. Non dimentichiamo che a Gerusalemme fu lo Spirito a trasformare gli apostoli e a renderli capaci di affrontare la piazza. Credo che questa città ci dica ancora oggi che la missione non nasce dai nostri sforzi, ma dallo Spirito che ci rende aperti a ogni persona che incontriamo. E poi anche un altro elemento: Gerusalemme ci invita a una missione condivisa tra cristiani. Non c’è nessun altro posto al mondo che ci richiami con questa stessa forza l’urgenza dell’unità. Ora finalmente in Terra Santa viviamo questa dimensione come una ricchezza: Gerusalemme sta diventando per noi cristiani un laboratorio di ecumenismo quotidiano e concreto. Un seme forse ancora nascosto, ma di cui non mancheremo di vedere i frutti».

Quello che si appresta a vivere sarà il suo primo Natale in Terra Santa. Che esperienza sarà?

«L’Avvento ci richiama a un’attesa proiettata non verso ciò che c’è già stato, ma verso quanto sarà. Ci ricorda che c’è un compimento verso cui avanzano il mondo e la storia. Credo che vivere l’attesa del Natale in questa terra oggi sia un’esperienza del tutto particolare. Penso anche ai brani apocalittici, che durante l’Avvento la liturgia ci propone sia nelle pagine nell’Antico Testamento sia nel Vangelo: certe immagini forti di distruzione sembrano tratte proprio dai notiziari di oggi. Eppure quei brani parlano di una speranza, annunciano che la liberazione è vicina. Ecco: è con questi occhi che da Gerusalemme vorremmo invitare tutti a guardare anche la realtà dolorosa e violenta che in questo nostro tempo ci accompagna. Con lo sguardo rivolto in avanti. Solo così le nostre fatiche non saranno più solamente qualcosa da sopportare, ma un segno che indica un’alba nuova per tutti».