Il missionario che non poteva esserlo

Il missionario che non poteva esserlo

Nato con una disabilità che lo limita nel movimento, padre Deodato non avrebbe potuto fare il prete, tantomeno andare in missione. Invece è partito per il Messico e ora, dopo nove anni, ci racconta la sua storia

 

La logica vorrebbe che per un dato lavoro ci si prepari e si scelgano le persone più adatte. Tanto più se il “lavoro” è complicato o pericoloso, come fare il missionario in Messico. La logica vorrebbe… ma il Signore sembra provare gusto a non farci caso, a scegliere per la sua vigna gli operai più inadeguati e a ricordare all’uomo (e alla sua logica) che l’adeguatezza non è tra i suoi parametri di giudizio. Me lo immagino, il Signore, che sorride divertito ogni volta che al giovane Deodato ripetono (e lo hanno fatto più volte) la frase: «Se ti avesse voluto missionario ti avrebbe dato la salute adeguata».

Deodato Mammana, siciliano, è nato a Catenanuova, in provincia di Enna; è stato partorito in casa dei suoi genitori e se a quei tempi avessero potuto fare un’ecografia si sarebbero accorti prima che aveva il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo tre volte. Nell’emergenza del momento lo fanno nascere col forcipe, ma lo feriscono alla testa danneggiando per sempre il suo sistema nervoso. Per tutta la vita Deodato avrà problemi di equilibrio e di forza, e muoversi sarà per lui sempre difficile. Tanto che per mandarlo a scuola ed evitargli spostamenti quotidiani i suoi genitori dovranno tirare la cinghia per permettergli di abitare nel collegio dei salesiani a Catania. Viaggiare per lui è fortemente sconsigliato, eppure la sua storia è un continuo spostarsi di luogo in luogo. «La mia vita è un miracolo quotidiano» dice. «Perché non potrei fare quello che faccio, ma lo faccio. Senza mai forzare la mano e accettando sempre l’aiuto che mi viene offerto, anche il più elementare».

È ai tempi della scuola che nasce in lui la chiamata alla missione, ma tutti continuano a ripetergli che è impossibile che la sua sia una vera vocazione perché altrimenti «il Signore ti avrebbe dato la salute adeguata». La mentalità preconciliare è ancora diffusissima e Deodato crede a quello che gli dicono, rinunciando ai suoi progetti. Barcollando e incespicando vive la sua vita: si laurea, inizia la sua attività di avvocato del lavoro e pensa seriamente al matrimonio. Ma a 35 anni il pensiero del sacerdozio ancora non se ne va; Deodato ci riprova e questa volta, finalmente, viene ammesso al seminario diocesano. Ne esce cinque anni dopo e subito chiede di andare in missione, su esempio dei missionari salesiani che aveva conosciuto a scuola. «Prete sì, missionario no!» gli dicono (e il Signore, dal trono celeste, sorride). Deodato placidamente, obbedisce. E senza forzare la mano riesce comunque a entrare nel «mondo dei missionari» quando gli chiedono di fare il direttore dell’Ufficio missionario diocesano di Catania.

Dopo due mandati consecutivi Deodato teme che ormai la sua uscita “dal giro” sia imminente, invece dietro l’angolo c’è un ingresso in corsia preferenziale. Un incontro casuale, a un pranzo, con il superiore dell’allora regione Italia del Pime; chiacchierando del più e del meno a padre Deodato scappa una battuta: «Io la missione ce l’ho nel cuore, ma nessuno mi ha voluto. Mi accettate voi?». E inaspettate, in un colpo solo, gli arrivano sia la risposta che la destinazione: «Sì. Abbiamo bisogno di qualcuno in Messico». Era il gennaio del 2011 e Deodato aveva 62 anni. A settembre dello stesso anno era a Cuana Caxtitlan, nello Stato messicano del Guerrero.

«Mi diedero un compito molto semplice: dare supporto a padre Graziano Rota. Lo conobbi la sera al Pime di Milano e la mattina dopo eravamo in volo per il Messico, ma fra noi nacque subito una grande amicizia» racconta padre Deodato. «Il primo anno a Cuana Caxtitlan fu meraviglioso. La parrocchia era perfettamente conforme al mio stile: fondata sulla promozione umana per il popolo mixteco, gente molto povera. Facevamo pozzi, adozioni a distanza, filtraggio dell’acqua, visite mediche, farmacia… Vivevamo della provvidenza divina e riuscivamo a fare tutto senza chiedere niente». Dopo un anno, però, padre Graziano rientra in Italia e, per problemi di salute, non tornerà più in Messico. Padre Deodato resta solo e fatica non poco a prendere le redini della missione in cui ha vissuto soltanto, e troppo poco, come aiutante. A questo si aggiunge il fatto che, con la sua disabilità, è da solo in una parrocchia sperduta tra le montagne del Guerrero. «Quando dovevo andare a fare la spesa in città dovevo prendere la jeep. Per salire e scendere dal sedile del guidatore mi ci volevano due o tre tentativi ogni volta. Facevo un po’ pena a chi mi vedeva barcollare così, e alcuni non credevano nemmeno che riuscissi a guidare e a spostarmi da solo. Ma sono nato così, ci sono abituato e non mi sono mai lamentato. Anche in questo caso ho ricevuto aiuto: ogni weekend venivano a darmi una mano padre Rogerio Santana Neves e padre Damiano Tina».

È proprio con padre Damiano che Deodato passa la seconda metà della sua esperienza in missione. Dopo quattro anni a Cuana Caxtitlan il Pime consegna la parrocchia alla diocesi locale e padre Deodato viene ridestinato alla neo­nata missione di Ecatepec: una cappella ai margini di Carto­landia, un quartiere illegale, poverissimo e ad alto tasso di criminalità nella periferia di Città del Messico. «Qui la situazione era molto diversa da quella a cui ero abituato» racconta padre Deodato. «Da sperduto nelle montagne mi ritrovai in una città enorme e affollatissima, a lavorare con degli immigrati interni, in un’azione missionaria fondata quasi esclusivamente sull’evangelizzazione pura. Iniziare non fu facile, ma il Signore ha benedetto il nostro lavoro sin dal primo giorno.

Abbiamo cominciato facendo visita alle famiglie, che ci hanno accolti da subito a braccia aperte». Non è una cosa scontata: a Cartolandia vivono gli emarginati degli emarginati, indios che dai villaggi arrivano a Città del Messico in cerca di lavoro e spesso, per disperazione, finiscono nelle grinfie della criminalità organizzata, che offre guadagni facili e veloci in cambio di una vita di piccoli crimini e che controlla tutto il quartiere. È un territorio off-limits persino per la polizia. «Quando abbiamo iniziato a lavorare a Ecatepec abbiamo richiesto che dei poliziotti fossero presenti durante le iniziative a cui partecipavano molte persone, per sicurezza. Ma quando ci vedevano entrare a Cartolandia gli agenti si fermavano fuori e ci dicevano: “Padri, entrate lì? Noi vi aspettiamo qui quando uscite”» racconta divertito padre Deodato. «Noi invece a Cartolandia eravamo sempre ben accolti, nessuno ci faceva mai nulla. Per esempio, una volta ero da solo e ci dovetti andare prendendo un taxi. Quando chiesi al tassista di entrare nel quartiere era terrorizzato, anche se gli avevo assicurato che con me non lo avrebbero toccato. Ma lui mi chiese come avrebbe fatto a uscirne da solo, una volta che mi avesse lasciato all’interno. Gli risposi: “Se ti fermano di’ che hai accompagnato padre Deodato e non ti faranno niente”. Solo dopo realizzai che forse quel tassista credette fossi un boss».

Il problema della criminalità è serio, a Ecatepec. In una terra di nessuno le bande agiscono indisturbate spacciando, reclutando, uccidendo. «Molto spesso ci raccontavano di cadaveri che venivano scaricati lì di notte e ritrovati al mattino. Ma da quando siamo arrivati noi, piano piano, ha iniziato ad esserci un’aria diversa e anche questi episodi sono diminuiti. Prima c’era un muro tra chi abitava a Cartolandia e tutti gli altri; con noi quel muro è caduto subito. Stavamo con loro e questo ha permesso a loro di aprirsi. Non sono malvagi, anzi molto spesso vengono adescati e poi ricattati dalle bande, imprigionati in una vita che non volevano. Ma quei “criminali” non riuscivano a vivere col peso di quello che facevano o erano costretti a fare. “Voglio uscirne perché questa non è vita” è un ritornello che in confessionale ho sentito tantissime volte».

Inadatto a fare il prete e tantomeno il missionario, padre Deodato ha invece passato nove «fantastici» anni in Messico, con l’aiuto e la complicità della Provvidenza. Finito il suo periodo da fidei donum, da luglio è di nuovo in Italia, in attesa di un nuovo compito nella sua diocesi di origine. È la conclusione della sua esperienza missionaria? Uscirà dal mondo della missione per tornare in quello della diocesi? «Ma la Chiesa o è missionaria o non è Chiesa» risponde lui. «Come vuoi uscirne?».