Una soluzione umanitaria per Manus e Nauru

Una soluzione umanitaria per Manus e Nauru

Sette anni fa iniziava l’odissea dei richiedenti asilo confinati dall’Australia su due isole in mezzo all’Oceano. Un trattamento inumano che ha provocato morte, malattie psichiche e tanti altri problemi e resta irrisolto. Padre Giorgio Licini, segretario della Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea, racconta qual è oggi la situazione. E rilancia l’appello: l’Australia abbandoni questa politica crudele e scelga una via d’uscita umanitaria

 

Il 19 luglio sono sette anni dall’accordo che ha autorizzato il governo australiano a trasferire sulla remota isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, i richiedenti asilo giunti via mare sulle loro coste. Non si trattava di una soluzione logistica, in vista della valutazione dei singoli casi. Quello stesso giorno il Parlamento di Canberra approvava una legge che impediva a chiunque arrivasse nel paese by boat di essere mai accolto e trattenuto in Australia. La regola non fu applicata a tutti gli arrivi in quei mesi, ma 1532 individui, tutti maschi, furono imbarcati per Manus tra l’agosto 2013 a il febbraio 2014. Un numero simile, incluse famiglie, donne e bambini furono inviati sull’isola-stato di Nauru in Micronesia. Nel giro di circa sei mesi gli sbarchi cessarono, facendo anche uso di sorveglianza militare marittima e respingimento dei natanti al largo delle coste indonesiane.

Le drastiche decisioni australiane del 2013 facevano seguito ad anni di arrivi spontanei soprattutto a Christmas Island, la loro Lampedusa, nell’Oceano Indiano, lontanissima dalla madrepatria, ma solo ad una paio di giorni di navigazione dall’Indonesia per le carrette del mare. Non pochi erano stati i naufragi e il numero delle vittime. Manus e Nauru furono presentate all’inizio in chiave di lotta al traffico di esseri umani e agli interessi degli scafisti. Delle tremila persone che approdarono sulle isole del Pacifico, tuttavia, più di due terzi erano autentici rifugiati, quasi tutti giovani, in fuga da Somalia, Sudan, Iran, Iraq, Afghanistan, Myanmar, Sri Lanka, Bangladesh e altri paesi mediorientali e asiatici. Erano già fortemente provati dai conflitti politici e militari in patria e dal viaggio lungo e incerto nelle mani dei trafficanti. Si trattava quindi di persone che avrebbero dovuto essere accolte ovunque avessero fatto richiesta di asilo, nel loro caso in Australia, avendo quel Paese ratificato nel 1986 la Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati (1951) e il successivo Protocollo del 1967.

Si discuterebbe comunque a lungo e con poco risultato, se ci si fermasse al quadro normativo e alle politiche dei singoli stati, per un fenomeno divenuto ormai tanto grande quanto ingestibile. Ciò che più colpisce invece nell’approccio a Manus e Nauru è il livello generalizzato di sofferenza e malattia mentale riscontrata almeno nell’80% dei profughi. Essa ha tre cause. Come già accennato, la prima è la tragica esperienza di ogni individuo. La seconda è l’incertezza per il futuro e il veder sfumare le potenzialità degli anni giovanili. La terza e più grave è relativa alle condizioni di isolamento, durata e assenza di prospettive della detenzione.

Al di là di affermazioni rassicuranti e mezze verità (a volte menzogne), che hanno accompagnato questi sette anni, il governo australiano (all’inizio laburista ora conservatore) ha usato i tremila individui di Manus e Nauru per fermare le partenze dal Sudest asiatico. Doveva essere chiaro che l’accoglienza in Australia sarebbe stata interdetta, e per sempre, a chiunque si fosse presentato sulle coste. Il futuro sarebbe stato anzi la detenzione a tempo indeterminato su una remota isola tropicale. Per gli uomini trasferiti a Manus, l’accordo del 19 luglio 2013 parla addirittura di ricollocamento (resettlement) in Papua Nuova Guinea per tutti loro.

In realtà 643 individui, sul totale di 1532 giunti a Manus, decisero o furono convinti (una ventina costretti) a tornare al luogo di provenienza, soprattutto nepalesi, iraniani e bengalesi. Degli 880 rimasti, sette nel frattempo sono morti per suicidio, malattie o incidenti; una quindicina hanno trovato accoglienza in altri Paesi grazie ad appoggi ed aiuti di vario genere; uno si è sposato e si è stabilito a Manus; quasi 400 sono partiti per gli Stati Uniti negli ultimi due anni, grazie ad un accordo con il presidente Obama nel 2016, per l’accoglienza di 1250 rifugiati complessivamente da Manus e Nauru; 187 sono ancora in Papua Nuova Guinea (nella capitale Port Moresby dopo la chiusura dei campi a Manus un anno fa); circa 300 sono in Australia, trasferiti a più riprese per motivi di salute e ancora detenuti in centri per immigrati o in comunità ad un indirizzo fisso, con un piccolo contributo economico, ma senza visto e diritto di lavoro o di studio.

Di questi, circa 190 individui sono giunti da Manus e Nauru nel corso nel 2019 per cure mediche, grazie una legge ad hoc, passata per un solo voto alla camera bassa per iniziativa delle opposizioni, ma poi abrogata prima della fine dell’anno. A questi individui il governo australiano l’ha giurata: nessun trattamento sanitario, detenzione in camera d’albergo 24 ore su 24, nessuna possibilità di dimora in comunità. Da oltre un mese si susseguono le manifestazioni di organizzazioni umanitarie di fronte ai due alberghi di Brisbane e Melbourne per il rischio di infezione da Covid-19, ma per ora senza alcun risultato.

Da un anno circa l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha messo in campo personale ad hoc a Canberra per trovare una soluzione ai superstiti di Manus e Nauru non ancora ricollocati. È ragionevole pensare che circa 150 di loro saranno ancora assorbiti dalla quota degli Stati Uniti e da alcuni altri paesi entro la fine del 2020. Col nuovo anno, tuttavia, circa 250 persone saranno ancora in Papua Nuova Guinea e a Nauru senza alcuna opzione di trasferimento in un paese terzo, così come i circa 190 giunti in Australia nel 2019 per volontà del Parlamento, ma non del governo. Un totale di almeno 400 soggetti e oltre.

Una soluzione umanitaria dovrà essere trovata per queste persone. La Nuova Zelanda si è offerta da tempo di dare una mano, ma l’Australia si oppone a causa della facilità con cui poi i cittadini si spostano tra i due Paesi; mentre ai profughi di Manus e Nauru è interdetto per sempre non solo risiedere, ma anche entrare in Australia. Le conseguenze di questo tipo durissimo di trattamento dei rifugiati arrivati via mare da parte dell’Australia, caso unico nelle democrazie occidentali e in palese, aperta, e conclamata violazione delle convenzioni internazionali, è devastante sul fisico e la psiche delle persone. L’ostinazione e la freddezza con cui i ministri conservatori respingono da anni le obiezioni di chiunque lascia allibiti.

Manus e Nauru sono già costate 15 morti, circa la metà per suicidio (tra cui un’infermiera australiana traumatizzata), un numero infinito di casi di tentato suicidio e autolesionismo, deterioramento delle condizioni mentali fino alla perdita dell’uso di ragione per alcuni, depressione, decine di gravidanze e ragazze madri tra le donne locali, bambini che cresceranno senza sostegno paterno. Il governo australiano lo sa, ma è proprio ciò che vuole, per far capire ai circa 18 mila richiedenti asilo ancora bloccati in Indonesia che dall’altra parte del mare c’è l’inferno.

La versione ufficiale australiana ora è che tutti avranno una sistemazione: in Papua Nuova Guinea (o Nauru); indietro al loro paese di origine; o in un paese terzo che non sia l’Australia. Ma il governo di Canberra è il primo a sapere che purtroppo si tratta di parole vuote. La Papua Nuova Guinea non sta offrendo incentivi a nessuno per rimanere; un solo rifugiato finora ha voluto stabilirsi a Manus. Dopo sette anni chi voleva e poteva tornare a casa lo ha già fatto da tempo (con un compenso di 25 mila dollari). Le attuali possibilità in un paese terzo saranno esaurite non appena gli Stati Uniti avranno completato la selezione di 1250 persone; e le Nazioni Unite avranno esaurito i loro sforzi per singoli casi verso altri paesi. 

Torna quindi la necessità di una soluzione umanitaria nel 2021 per almeno 400 rifugiati, che non avranno potuto avvalersi dell’opzione Stati Uniti o di un altro paese di accoglienza. Questo anche per  chiudere una vicenda, perseguita prima con sorda determinazione ed ora persino con una certa crudeltà e cattiveria da parte di un governo, che ha già potuto spendere per questo in sette anni l’equivalente di quattro miliardi di euro

 *  Padre Giorgio Licini è segretario generale della Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea e Isole Salomone