Giappone, il Covid ferma ancora la “womenomics”

Giappone, il Covid ferma ancora la “womenomics”

Il tasso di parità tra i generi nel lavoro e nella società è sceso al 121° posto su 153 Paesi, il maggiore divario tra i Paesi ad economia avanzata e con forte balzo in negativo dall’inizio del secondo mandato di Abe nel 2012

 

In Giappone la pandemia influisce anche sull’implementazione dei provvedimenti di rilancio del ruolo femminile nel lavoro e nella società, riportando indietro di anni la situazione mentre proprio sulle donne pesa molto della crisi in corso, sia nell’ambito domestico, sia in quello economico e occupazionale. 

Impegni disattesi ma anche una valenza economica che peserà sulle prospettive di crescita del Paese. Non ufficializzato ma nei fatti, l’obiettivo di porre le donne almeno nel 30 per cento dei posti di responsabilità in azienda subirà un ritardo di un decennio. Speculazioni indicano in un obiettivo ora spostato al 2030, inserito nel prossimo piano quinquennale che sarà approvato entro l’anno. Una situazione indicata come “prova della mancanza di impegno del governo” da Machiko Osawa, docente di Economia del lavoro all’Università Femminile di Tokyo.

L’obiettivo era uno dei cardini della manovra, non a caso definita “womenomics” (un chiaro richiamo a “abenomics”, gli indirizzi decisi dal primo ministro Shinzo Abe negli ultimi anni per fare uscire il Giappone dallo stallo economico e rilanciarlo tra le potenze mondiali) con cui il governo a guida liberal-democratico aspirava a ridurre il divario di opportunità tra i sessi e insieme di avviare almeno la soluzione di due drammatici problemi che riguardano l’arcipelago: la denatalità e l’invecchiamento della popolazione.

Il tasso di parità tra i generi è sceso, come indicato per l’anno in corso del World Economic Forum, al 121° posto su 153 Paesi, il maggiore divario tra i Paesi ad economia avanzata e con forte balzo in negativo dall’inizio del secondo mandato di Abe nel 2012.

La riprova è la metà del 30 per cento previsto di donne-manager entro quest’anno, ma i mass media nipponici hanno apertamente parlato di un “fallimento”, che si evidenzia anche nella ridotta presenza femminile nel governo (due ministri donna su 19) e nel parlamento (solo il 10 per cento di donne alla Camera dei rappresentanti)

Dall’Ufficio governativo per l’Uguaglianza di genere è emerso che è in elaborazione un nuovo piano a riguardo ma non vi sono tempi certi per arrivare a una conclusione.

Più volte sbandierato nei consessi internazionali più che presso il suo stesso elettorato, l’obiettivo di Abe di “far brillare” le donne giapponesi sul posto di lavoro, sostenuto da una apposita legge in vigore dal 2015 che incentiva le aziende a favorire l’occupazione femminile, ha visto pochi risultati. 

Le velleità della politica di governo si confrontano con una situazione che resta di sostanziale discriminazione, che ha radici tradizionali ma che si perpetua per l’interesse – aziendale e nazionale – a poter disporre di una forte riserva di impieghi sottopagati, precari e part-time che hanno finora ammortizzato crisi economiche e disagio sociale. rendendo le donne lavoratrici subordinate per mansioni, salari e possibilità di carriera.  Creando anche un movimento di opposizione a questo stato di cose a cui la politica governativa sembrava negli ultimi anni avere dato ascolto nella necessità di incentivare anche sul piano legale l’accesso al lavoro e alla carriera delle donne e una maternità più frequente che non significasse l’automatica esclusione dall’impiego o una emarginazione in azienda.

Anche il riconoscimento e la condanna da parte della Corte suprema di fenomeni che rientrano nella imponente casistica del matahara (ovvero maternity e harassment, maternità e molestia), fatica a concretizzarsi in provvedimenti ufficiali e in una evoluzione di mentalità che è il primo ostacolo alle pari opportunità.