Così la fede sopravvive all’ateismo di Stato

Nonostante la repressione delle religioni, le credenze tradizionali resistono. Ma la crescita del cristianesimo e avversata dal Partito

 

La Repubblica Popolare Cinese è ufficialmente uno Stato ateo sin dalla sua istituzione. Nonostante le politiche statali, tuttavia, i cinesi continuano a praticare le religioni.

Le confessioni riconosciute dal Partito comunista sono solo cinque: buddhismo, taoismo, cattolicesimo, protestantesimo e islam, ognuna tenuta sotto stretto controllo da un organismo statale. Per esempio, l’Associazione patriottica e la Conferenza episcopale della Chiesa cattolica in Cina – non approvate dalla Santa Sede – sovrintendono e controllano la Chiesa locale. Il fondamento ideologico della politica religiosa cinese è il marxismo-leninismo, che fondamentalmente vede le fedi come sovrastrutture costruite sulla classe borghese. Durante la Rivoluzione culturale, l’amministrazione di ultra-sinistra mirava a sopprimere tutte le religioni in quanto considerate superstizioni e strumenti dei “nemici di classe”.

La politica delle porte aperte attuata negli anni ottanta spostò la linea verso la regolamentazione e la cooptazione. Il lavoro del Fronte Unito divenne l’approccio chiave del partito e la vita religiosa riprese di conseguenza. Alcune religioni, come il buddhismo e il taoismo, furono rapide ad allinearsi con lo Stato. I funzionari locali videro anche gli enormi benefici economici della ricostruzione e conservazione dei templi buddhisti e taoisti come attrazioni turistiche. Nello Zhejiang, la politica di rilancio del culto di Mazu fu usata per accentuare i sentimenti nazionali tra le due sponde dello stretto di Taiwan. Le relazioni dello Stato con il protestantesimo e il cattolicesimo sono state più complicate. Le Chiese tinghua – obbedienti – furono autorizzate a operare con un certo grado di libertà. Quelle che manifestavano irrequietezza agli occhi del Partito, come alcune Chiese domestiche e le comunità cattoliche “sotterranee”, furono soppresse.

Anche la pratica tradizionale del Qigong fu repressa con il pugno di ferro a causa della resistenza del Falungong, mentre l’islam nello Xinjiang e il buddhismo tibetano furono messi sotto stretto controllo e sottoposti a regole draconiane in quanto il partito li vedeva come elementi di separatismo. Sotto l’attuale amministrazione di Xi Jinping, la repressione delle religioni è diventata più grave e più militante.

Ad esempio, la demolizione di croci e chiese in alcune province riflette la determinazione del partito a frenare la rapida crescita del cristianesimo. La politica di sinicizzazione tocca anche il buddhismo e il taoismo, che sono tradizionalmente cinesi. Lo scopo, naturalmente, non è integrare ulteriormente le religioni nella cultura cinese, ma portarle sotto l’ala del partito. Nonostante tutto, praticare una fede, soprattutto tradizionale, non è raro tra i cinesi di oggi. Finché la devozione non minaccia lo status di governo del partito, è tollerata. Va notato che praticare il buddhismo e il taoismo è diverso dal professare il protestantesimo, il cattolicesimo o l’islam: di solito non richiede un rito di conversione e i fedeli non aderiscono ad alcuna ortodossia. Per la maggior parte dei cinesi, il buddhismo e il taoismo sono credenze popolari che si mescolano con il confucianesimo: si può pregare alcuni dei taoisti al mattino e offrire incenso in un tempio buddhista nel pomeriggio.

La rapida urbanizzazione e lo sviluppo economico rappresentano comunque una sfida per tutte le religioni. Ad esempio, è comune per i giovani cattolici che migrano dalle regioni rurali alle città smettere di praticare. Tuttavia, gli atei rigorosi sono rari tra i cinesi. La gente conserva alcune forme di credenze, per quanto superficiali. Se poi le religioni guidino le scelte di vita, è un’altra questione.

 

Chit Wai John Mok è un sociologo, Commissione Giustizia e Pace della diocesi di Hong Kong