Le croci abbattute del giardino di tenebra

Le croci abbattute del giardino di tenebra

Un anno fa – il 27 settembre 2020 – riesplodeva il conflitto sul Nagorno Karabakh tra Armenia e Azerbaijan. Tra le “vittime collaterali” di questa guerra c’è la minaccia al patrimonio cristiano di questa regione. «Vogliono cancellare i segni della nostra presenza», denuncia padre Hambardzumyan, del Patriarcato armeno

 

La chiesa di San Giovanni Battista a Shushi, nota in armeno come “Kanach Zham”, “la cappella verde”, per quello che un tempo era il colore delle sue cupole, è stata profanata e distrutta. Di Mariam Astva­tsatsin, Maria Madre di Dio a Mekhakavan, nella regione di Hadrut, non resta nemmeno una pietra. E se la stessa cattedrale di Shushi dedicata al Santo Salvatore – Ghazanchetsots – è stata pesantemente danneggiata dalle bombe, gli antichissimi resti del monastero di Yeghishe Arakyal nel villaggio di Madagiz hanno subito gravi vandalismi, così come decine di statue religiose e lapidi nei cimiteri cristiani.

Si tratta delle “vittime collaterali” dell’ultimo atto della guerra tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno Karabakh, regione caucasica storicamente a maggioranza armena contesa dai due Paesi, che lo scorso autunno ha provocato oltre quattromila morti e 130 mila sfollati. L’accordo seguito al cessate il fuoco del 9 novembre, firmato dai due Stati belligeranti e dalla Russia, ha trasferito a Baku la sovranità su sette distretti: un boccone amarissimo per Yerevan e per l’autoproclamata Repub­blica dell’Artsakh (il nome armeno del Nagorno Karabakh), dichiaratasi indipendente dall’Azerbaijan il 6 gennaio 1992 ma mai riconosciuta dalla comunità internazionale. Un anno dopo l’ondata di violenza, non resta solo il dramma dei civili costretti ad abbandonare la terra dei loro avi.

«Ogni giorno che passa, il nostro patrimonio culturale e religioso è più a rischio, mentre gli oltraggi e le violazioni alla libertà di fede dei cristiani sono quotidiani». Non nasconde la preoccupazione padre Karekin Hambardzumyan, archimandrita scelto dal Patriar­cato armeno apostolico di Etch­mia­dzin per guidare il dipartimento dedicato proprio alla tutela dell’eredità cristiana dell’Art­sakh. Un lascito che per questo popolo è inestricabilmente connesso all’identità nazionale: l’Armenia, dopotutto, fu la prima nazione al mondo ad adottare, nel 301, il cristianesimo come religione ufficiale.

«Qui custodiamo circa 4.400 tra chiese, cappelle, tradizionali croci di pietra chiamate kachkar, la cui fine lavorazione dà al sasso l’aspetto di un ricamo, e monasteri antichissimi, alcuni dei quali affondano le loro radici nel primo secolo, quando la fede in Gesù fu portata in queste terre dagli apostoli Bartolomeo e Taddeo e dai loro discepoli», spiega padre Hambardzumyan. C’è il complesso di Gandzasar, del XIII secolo, che secondo la tradizione custodirebbe la testa di san Giovanni Battista, e quello di Amaras, dove sorse la prima scuola di scrittura armena e dove fu sepolto san Grigoris, nipote del santo patrono Gregorio l’Illuminatore: la sua tomba, risalente al V secolo, rappresenta uno dei più antichi manufatti armeni sopravvissuti fino a oggi.

«Non si tratta solo di monumenti ma di un retaggio vivo, visto che parliamo di luoghi che da secoli attirano pellegrini tra questi monti». E che oggi spesso sono inaccessibili. È il caso di Dadivank, veneratissimo centro spirituale (lì sono conservate le reliquie di san Dadi) che da mille anni sorge in cima a un’alta collina boscosa nel distretto di Kalbajar, una delle regioni passate sotto la giurisdizione azera. «Grazie all’intervento del nostro patriarca Karekin II e del presidente armeno Sarkissian è stato possibile assicurare la presenza all’interno della struttura di alcuni monaci, che vi celebrano ogni giorno la divina liturgia, ma ultimamente Baku ha cominciato a ostacolare l’accesso al complesso adducendo scuse legate al controllo della pandemia di Covid-19 o all’impraticabilità delle strade», racconta l’archimandrita. Nonostante la presenza dei soldati russi che, secondo gli accordi, avranno per cinque anni un ruolo di “mantenimento della pace” anche in quest’area, «da alcuni mesi ai pellegrini è impedito raggiungere Dadivank: un’evidente violazione della libertà religiosa».
A non potere accedere al monastero, dove sono attualmente raccolti anche alcuni preziosi kachkar che rischiavano di subire vandalismi, sono anche i gruppi di esperti che dovrebbero accertarsi delle condizioni del sito e dei manufatti lì conservati, come la delegazione dell’Unesco a cui lo stesso Patriarcato ha già inviato ripetuti report: «La protezione di Dadivank, così come dell’antichissimo monastero di Tzitzerna­vank, che secondo la tradizione contiene le reliquie di san Giorgio, non riguarda solo noi armeni ma qualunque cristiano e chiunque ami la cultura, a prescindere dalla sua religione», afferma deciso il sacerdote.
In effetti, a luglio la federazione della società civile Europa Nostra e l’Associazione europea degli Archeologi hanno lanciato un appello con l’obiettivo di «promuovere l’organizzazione di una missione di esperti indipendenti nel Nagorno Karabakh per verificare lo stato di conservazione del patrimonio multiculturale a rischio e contribuire a promuovere la pace, la riconciliazione e il rafforzamento della fiducia nell’intera regione». Un approccio in linea con le conclusioni adottate il 21 giugno dal Consiglio dell’Unione Europea sul ruolo del patrimonio culturale nella promozione della convivenza, della democrazia e dello sviluppo sostenibile nelle aree di conflitto e di crisi.

Ma la gente fatica a fidarsi delle dichiarazioni di principio, così come delle promesse – già smentite dai fatti – del presidente azero Aliyev sulla sua intenzione di «proteggere adeguatamente i santuari cristiani nei territori restituiti all’Azerbaijan». E teme il ripetersi di una storia drammatica, iniziata con la cancellazione quasi totale della presenza cristiana in Ana­tolia all’inizio del Novecento – quando insieme a milioni di vite furono spazzati via anche chiese e monasteri – e rivissuta come un incubo all’inizio degli anni Duemila nell’exclave azera del Naxçıvan, che conobbe un vero e proprio “genocidio culturale”, con la distruzione di una novantina di chiese e di migliaia di lapidi e kachkar. «Una volta qualcuno ha detto che la mappa dell’Armenia è tracciata dalle sue chiese – commenta padre Hambardzu­myan -: gli azeri se ne sono sbarazzati per eliminare le prove della nostra presenza storica in quella regione. E recentemente un ministro di Baku ha affermato che “in effetti non esistono luoghi di culto e reperti cristiani nel Naxçıvan”!».

Per cancellare la storia, alla violenza si unisce anche la manipolazione: «Oggi la propaganda azera ha inventato una versione secondo cui i monasteri del Nagorno Karabakh sarebbero in realtà un’espressione della cultura degli udi, un popolo locale che faceva parte della nostra Chiesa apostolica, rappresentata in Artsakh dal Catholicosato di Aghyank, e che, tra l’altro, proprio per questo in passato ha subito anche persecuzioni. Ma ora Baku li strumentalizza per i suoi fini politici, sostenendo una connessione tra udi, poche migliaia di persone discendenti degli “albàni del Caucaso” e azeri, per dimostrare la loro presenza storica nella regione. Un’operazione maldestra, visto che le mura di questi luoghi sacri riportano migliaia di iscrizioni in armeno. Eppure, il governo di Aliyev non va tanto per il sottile, convinto che la ricchezza del petrolio possa comprare la rispettabilità a livello internazionale».

In effetti, al di là dei richiami e delle dichiarazioni di principio, sono ben pochi i Paesi stranieri che, nei fatti, intendono rinunciare a fare affari con l’Azerbaijan. E così chiudono un occhio sulla politica espansionistica di Baku, sostenuta e incoraggiata da Ankara, in nome di un panturchismo che, sebbene spesso si serva di argomenti religiosi, con la fede ha ben poco a che vedere. Padre Karekin lo sottolinea con chiarezza: «Il recente conflitto non è scoppiato in nome dello scontro tra musulmani e cristiani, ma per il controllo su questo pezzo di terra che nei secoli ha resistito a reiterati tentativi di invasione».
Oggi, tuttavia, il futuro è incerto. La presenza temporanea dei peackeeper russi dovrebbe congelare una situazione che resta tesissima. E la convivenza tra due popoli che si trovano a condividere, volenti o nolenti, il “giardino nero” del Caucaso (questo è il significato del nome Karabakh) vede ancora grossi ostacoli all’orizzonte. «La pace? Sarà possibile solo quando si accetterà l’autodeterminazione dell’Artsakh», sentenzia l’archi­mandrita di Etchmiadzin. Intanto, però, le persone perdono tutto e le antiche croci di pietra vengono divelte.