Quei missionari venuti da lontano

Quei missionari venuti da lontano

Da ragazzo, l’indiano padre Manohar Jyothi decise che la sua vocazione era la Cina: ora a Hong Kong insegna ai fedeli a superare le frontiere. Una storia emblematica, oggi che l’annuncio è sempre più Sud-Sud.

Che cosa ci fanno delle icone in stile bizantino in una parrocchia dei Nuovi Territori di Hong Kong? Per capirlo bisogna conoscere la storia del loro autore, il sacerdote indiano che dal 2016 guida la comunità cattolica di St. Francis a Ma On Shan.

In effetti padre Manohar Jyothi, nato 47 anni fa in un piccolo villaggio dell’Andhra Pradesh, ha un percorso interessante. A cominciare da quella volta in cui, studente appena sedicenne al seminario minore diocesano di Nuzvid, lesse per caso il libro, prestatogli dal rettore padre Giovanni Leoncini del Pime, di un missionario che raccontava la sua esperienza ventennale in Cina, e decise che quella un giorno sarebbe stata anche la sua storia. «Ma la strada per realizzare il mio sogno di ragazzo fu accidentata!», ride oggi padre Manohar. «Proprio il rettore, infatti, mi dissuase in tutti i modi, sostenendo che la mia diocesi aveva bisogno di sacerdoti e che per me, figlio più piccolo della famiglia, sarebbe stato troppo difficile allontanarmi da casa. Eppure io ero convintissimo. E, appena padre Leoncini dovette rientrare in Italia per un intervento agli occhi, ottenuto l’ok del suo sostituto e del vescovo, mi accordai per entrare nel seminario del Pime a Eluru». Tutto a posto, quindi? «Non proprio. Anche mio fratello maggiore, che si era sempre occupato di me fin dalla morte del papà quando io ero ancora un neonato, si opponeva alla mia decisione. Arrivò a nascon­dere la lettera del rettore di Eluru che mi ammetteva formalmente! Quando la trovai, lo affrontai e alla fine scelsi di partire nonostante la sua opposizione. Per fortuna, con il tempo, vedendomi contento della mia vita anche mio fratello si rasserenò e ci riconciliammo».
Il giovane seminarista, quindi, proseguì la sua formazione e, dopo due anni di studio della Filosofia, fu mandato per dodici mesi di attività pastorale presso il grande ostello per ragazzi gestito dal Pime a Eluru, dove fu “promosso” vicerettore.

 

Un’espe­rie­nza intensa, seguita dall’anno di Spiritualità a Pune. «Per proseguire poi nello studio della Teologia – continua padre Jyothi – c’erano due possibilità: Tagaytay nelle Filippine o Monza, in Italia. Io puntavo sulle Filippine, perché lì le lezioni sono in inglese, la cultura è quella asiatica e soprattutto si mangia riso! In Italia – pensavo – fa freddo e mangiano pasta tutti i giorni…». Facile immaginare la delusione del seminarista quando i superiori gli comunicarono che la sua meta sarebbe stata Monza. «Anzi, Busto Arsizio, perché prima dovevo studiare per un anno l’italiano…». E invece, i timori si rivelarono infondati: «Mi trovai benissimo, incontrai persone speciali e scoprii le tante bellezze del Paese. Tra l’altro, a Monza conobbi un missionario, padre Fulvio Giuliano, che dipingeva magnifiche icone. Notando che quella tecnica mi appassionava, padre Fulvio accettò di insegnarmela. All’inizio preparavo le tavole con il gesso e lo assistevo nel suo lavoro, poi lui mi mandò a Berga­mo a frequentare un corso alla Scuola iconografica legata alla Fonda­zione Russia Cristia­na». E così, il seminarista dell’Andhra Pradesh imparò a dipingere icone bizantine, scoprendo anche il mondo della tradizione teologica, liturgica, artistica e culturale russa. «Gli anni in Italia mi insegnarono che, a volte, noi desideriamo una cosa mentre il Signore ha in mente di offrirci qualcosa di ancora più bello». Una lezione che padre Manohar tenne a mente quando nel 2005, sacerdote neo ordinato in attesa di essere finalmente mandato in Cina, si sentì dire che, invece, sarebbe dovuto tornare in India per fare servizio in seminario… «Quella volta pensai: ok, lasciamo decidere al Signore. Così trascorsi tre anni a Chennai e tre a Hyderabad: un anno come vice e poi come rettore». Finché – era il 2011 – arrivò la fatidica lettera della Direzione generale: «Mi mandavano a Hong Kong! Ero molto felice, ma in effetti anche impreparato. Di quella realtà non sapevo nulla, quando pensavo alla Cina immaginavo la gente vestita in abiti tradizionali e i film di Jackie Chan», sorride oggi il missionario.
«Il primo impatto fu sorpren­dente. Non immaginavo un contesto così moderno, avanzato… Ma mi ci affezionai subito, fin da quando i confratelli vennero ad accogliermi all’aeroporto portandomi un abito hanfu, due bacchette per il cibo e una Bibbia in cinese come doni di benvenuto. Mi fecero sentire a casa, capii che non ero solo e non dovevo preoccuparmi di niente». Proprio gli altri missionari introdussero il nuovo arrivato alla cultura locale, a cominciare da padre Dino Doimo che lo accolse nella sua parrocchia agli inizi, mentre studiava la lingua alla Chinese University, ma anche i padri Mario Marazzi e Fernando Cagnin, che lo accompagnarono le prime volte oltre il confine con la Cina continentale.
«Furono poi i due anni e mezzo da vice parroco nella comunità di Tuen Mun, guidata da padre Renzo Milanese, a farmi immergere nella vita pastorale. Ammetto che non fu facile: non solo il cinese restava un ostacolo, ma all’inizio i parrocchiani mi sembravano tutti uguali! Senza contare che spesso avevano lo stesso cognome e questo aumentava la mia confusione…».

 

Insomma, al momento delle prime vacanze in India dopo cinque anni di missione, padre Jyothi si sentiva ancora un “novellino” della Cina. Ecco perché fu decisamente sorpreso quando scoprì che, nonostante le sue perplessità, i superiori avevano deciso di affidargli, al suo rientro a Hong Kong, la parrocchia di St. Francis a Ma On Shan, un tempo comunità di riferimento per i minatori della cava di ferro sul vicino monte e oggi piccola isola cattolica – duemila famiglie in tutto – tra i grattacieli color pastello di questa municipalità di duecentomila abitanti nei Nuovi Territori.
Siamo nell’area urbana che confina con la Cina continentale: la mainland si trova a Nord, oltre i fiumi Sham Chun e Sha Tau Kok. Una contiguità che ben esprime, simbolicamente, tante delle nuove sfide che l’ex colonia britannica si è trovata ad affrontare negli ultimi mesi, con la mano di Pechino allungata in modo sempre più deciso sulla vita di Hong Kong, dalla società alla politica.
«È un cambiamento che si percepisce chiaramente e che ha portato divisioni anche all’interno della stessa comunità cristiana», ammette il missionario. «La parrocchia, però, per me è come una famiglia: ci sono diversi caratteri e sensibilità a volte contrastanti, ma si cerca di accettarsi a vicenda». Padre Mano­har, da parte sua, si è sentito accolto fin dall’inizio dai fedeli di St. Francis, che non solo lo hanno sempre aiutato nel perfezionamento della lingua e nelle questioni organizzative, ma gli hanno aperto il cuore, condividendo con il sacerdote dubbi, fatiche e gioie.

 

«Qui la gente non cerca supporto materiale ma sente il bisogno di una relazione umana sincera, di una persona che sia sempre disponibile ad ascoltare e offrire un sostegno spirituale». E così, ritro­van­dosi per il rito dello yum cha – letteralmente “bere il tè”, ossia pasteggiare sorseggiando la bevanda tradizionale – si alimenta l’amicizia, base della missione.
Tra una catechesi e un incontro di formazione con i catecumeni, poi, il sacerdote indiano coltiva – il termine è quanto mai appropriato – un hobby insolito in mezzo al cemento dei Nuovi Territori: «Ho trasformato la terrazza della casa parrocchiale in un orto», racconta. «Faccio crescere pomodori, melanzane, rape, che poi condivido con i fedeli. È una passione che mi è nata ai tempi in cui ero rettore al seminario e che ho mantenuto: nei fine settimana mi occupo anche dell’orto alla Pime House qui a Hong Kong, dove coltivo un po’ di tutto, dalle verdure alle banane».
E, incentivato dai periodi di pausa forzata causa pandemia, padre Jyothi ha anche ripreso in mano il pennello, dopo ben quindici anni. «Non avevo mai avuto tempo per tornare all’arte, e poi né in India né qui è facile trovare il materiale adatto per realizzare le icone», racconta. «Poi, durante il primo lockdown, mi sono deciso: mi sono fatto mandare dall’Italia quello che qui non era disponibile e mi sono rimesso a dipingere… e l’ispirazione non si è più fermata! Per me è anche un’occasione di meditazione, una forma di preghiera. Ho già creato più di trenta icone: di Maria, della Trinità, di vari santi…». Piccoli quadri o composizioni di ampie tavole, che spesso il missionario colloca in chiesa o negli spazi comunitari. E i parrocchiani, dopo una certa sorpresa iniziale, hanno apprezzato questa ennesima dimostrazione – offerta dal parroco indiano amante della Cina e dell’arte bizantina – che tutte le frontiere possono essere oltrepassate in nome della fede.