Detroit, una storia (afro) americana

Detroit, una storia (afro) americana

Principale quartier generale del Pime negli Usa, l’ex città dei motori ha l’80% di abitanti neri e venti chiese cattoliche legate alle loro comunità. Parlano i padri Mazur e Piccolo, che operano tra i migranti

 

A Detroit, la celebre città dei motori americana oggi drammaticamente svuotata dalla crisi economica, le parrocchie catalogate come “nere” dal sito web dell’Arcidiocesi sono venti. D’altra parte, la tradizione cattolica afro di questo importante centro del Michigan, il cui declino iniziato negli anni Settanta è culminato nella clamorosa bancarotta del 2013, risale all’inizio del Novecento, quando il giovane Norman DuKette, che nel 1926 sarebbe diventato il primo sacerdote nero della città, organizzò nella chiesa di St. Mary una missione dedicata alla comunità di colore, per poi fondare la prima parrocchia interamente “black”, intitolata a san Peter Claver.

«Oggi l’80% dei cittadini di Detroit è costituito da afrodiscendenti», racconta padre Ken Mazur (foto pagina a fianco, a sinistra), superiore delegato del Pime negli Stati Uniti, che proprio qui ha il suo principale quartier generale. «I bianchi hanno abbandonato la città per la mancanza di opportunità e la sfiducia, e molti di loro non ci ritornano neanche saltuariamente, per una cena al ristorante, un concerto o una partita di baseball. Anche se, negli ultimissimi anni, abbiamo avuto un flusso di giovani che stanno lentamente facendo tornare alla vita i quartieri», aggiunge il religioso.
Missionario in Giappone dal 1991 al 2004, padre Mazur a Detroit è nato e cresciuto. È stato quindi testimone anche dei disordini a sfondo razziale degli anni Sessanta, in particolare del tragico riot del ’67, una violenta rivolta (durata dal 23 al 27 luglio) scatenata da un raid della polizia in un bar privo di licenza, che lasciò sul terreno 43 vittime, provocò migliaia di feriti e di arresti e la distruzione di oltre duemila edifici.

«Dagli anni Settanta le tensioni si calmarono e da allora sono rimaste sottotraccia, ma non hanno smesso di covare sotto la cenere. E ora, in molte parti del Paese, sono tornate a divampare», continua padre Ken, ammettendo che «la società americana oggi vive un forte senso di sfiducia e sospetto tra le diverse comunità: non solo tra bianchi e neri, ma anche verso gli arabi, i messicani, gli asiatici…».

E la politica soffia sul fuoco di queste divisioni, provocando una forte polarizzazione anche all’interno delle stesse parrocchie. «Lo si vede chiaramente dalla reazione alle proteste dei neri: chi è in favore di un certo partito mostra più empatia verso il movimento, mentre chi si pone nel campo politico opposto tradisce sospetto, persino rabbia».
I missionari del Pime, nella loro pastorale quotidiana, cercano di «seminare concordia, rispetto e attenzione ai bisogni di chi soffre o è trattato ingiustamente, anche se non è facile evitare di farsi trascinare nello scontro ideologico. Senza contare che, a causa dell’emergenza Coronavirus, le nostre attività parrocchiali restano molto limitate e facciamo quindi fatica a coltivare momenti di confronto proficui con i parrocchiani».

Resta fermo l’impegno al servizio dei migranti: italiani ma soprattutto ispanici, che hanno bisogno di aiuto anche per i problemi concreti, in particolare l’assistenza legale nei frequenti casi di persone senza documenti. Necessità molto diverse rispetto a quelle degli afroamericani, «che sono cittadini a tutti gli effetti e non necessariamente sono bisognosi», spiega padre Ken. Che racconta, anzi, la ricchezza rappresentata dalla comunità nera anche per la Chiesa cattolica. «Dall’altra parte della strada rispetto alla nostra casa c’è una parrocchia frequentata tradizionalmente da fedeli di colore. La loro Messa, piena di canti e di abbracci, può durare due ore, mentre noi ce la caviamo in un’oretta scarsa!». Una pluralità da valorizzare, come antidoto a un tessuto sociale lacerato.

Ne sa qualcosa padre Bruno Piccolo (foto a destra), pure lui missionario del Pime, che a Detroit è arrivato negli anni Sessanta e vi è tornato recentemente, dopo aver vissuto in varie città degli Stati Uniti, da Washington a Chicago, da Los Angeles a New York. Sempre in parrocchie caratterizzate da stratificazioni di minoranze di migranti. «Del resto – riflette il missionario – che cosa s’intende oggi per minoranza negli Stati Uniti? Anche i cosiddetti “bianchi” sono una minoranza, dal momento che rappresentano il 35/40% della popolazione. E tuttavia continuano a detenere il potere politico ed economico».

Padre Piccolo ha seguito per quasi sessant’anni – con alcune parentesi in Italia – l’evolversi del movimento afroamericano, ma anche le dinamiche che hanno interessato altre comunità. «A Los Angeles – ricorda – la parrocchia del Pime è stata prima italiana, poi irlandese, poi afroamericana, poi ispanica… Quella attuale di East Harlem, a New York, ha conosciuto più o meno la stessa storia e oggi è frequentata prevalentemente da migranti provenienti da Messico, Porto Rico e Santo Domingo».

Nata come parrocchia di don Orione per gli italiani, quella di St. Anne a Manhattan è oggi un pezzo di mondo con immigrati provenienti da almeno una dozzina di Paesi. Il parroco è un missionario del Pime indiano. E dopo padre Bruno, è arrivato un altro italiano, padre Marco Brioschi, che però si occupa dei cinesi.

«New York è una metropoli estremamente dinamica e in continua evoluzione – conferma padre Bruno, che vi ha vissuto negli ultimi tre anni prima di tornare a Detroit -, ma oggi gli spostamenti delle persone sono determinati più da fattori economici che da motivi razziali. I poveri si trasferiscono sempre più all’esterno e i ricchi occupano parti della città, come Harlem, che tradizionalmente erano contrassegnate dalla presenza di comunità specifiche e piuttosto omogenee. Oggi le linee di demarcazione si dispiegano lungo confini di tipo economico-finanziario, che determinano anche vecchie e nuove discriminazioni, dall’accesso all’istruzione alla sanità, dal lavoro alla casa». Tutti temi – e urgenze – entrati solo marginalmente in una campagna elettorale particolarmente avvelenata.