Eritrea: arrestati un vescovo e due preti

Eritrea: arrestati un vescovo e due preti

Fermato all’aeroporto di Asmara, il vescovo cattolico di Saganèiti è stato “trattenuto” dalle forze dell’ordine eritree senza specificarne le ragioni. Precedentemente arrestati anche due preti. Intanto, si rafforza l’impegno militare dell’Eritrea in Tigray

Un vescovo e due preti sono stati recentemente arrestati in Eritrea senza che le autorità specificassero le ragioni di tali provvedimenti. Si tratta dell’ennesimo episodio di “ostilità” nei confronti della Chiesa cattolica presente nel Paese con tante opere soprattutto educative e sanitarie che sono state oggetto di un processo di espropri e nazionalizzazioni.

Ora anche il personale della Chiesa viene direttamente preso di mira. Monsignor Fikremariam Hagos, vescovo di Saganèiti, nel sud del Paese, è stato arrestato sabato 15 ottobre all’aeroporto della capitale Asmara, di rientro da un viaggio in Europa. qualche giorno prima era stato arrestato abba Mihretab Stefanos, parroco di St Michael’s a Saganèiti. Un altro sacerdote, il cappuccino padre Abraham, si trova invece in stato di detenzione a Teseney.

In tutti e tre i casi le autorità non hanno precisato le ragioni del “fermo”, ma avrebbero informato la Chiesa del fatto che il prelato è stato “trattenuto”, senza specificare dove e perché.

Monsignor Fikremariam Hagos è da dieci anni vescovo di Saganèiti, una cittadina situata nella Regione amministrativa Sud dell’Eritrea, sulla strada tra Asmara-Decamerè-Addi Caièh-Senafè, sede di un’Eparchia cattolica, di cui è stato nominato primo vescovo.

Il suo arresto e quello degli altri due preti avviane in un momento di grande tensione legato al coinvolgimento dell’Eritrea nel conflitto in Tigray. A fine settembre, infatti, l’esercito di Asmara ha lanciato un’offensiva su vasta scala nella vicina regione etiope, dove è in corso una guerra civile, scoppiata nel novembre del 2020, che oppone l’esercito federale del premier Abiy Ahmed alle forze del Tigray People’s Liberation Front (TPLF).

Quella che doveva essere un’operazione-lampo, lanciata dal primo ministro etiope, si è invece trasformata in un conflitto crudelissimo, che ha provocato migliaia di morti, circa 2 milioni di sfollati e profughi e una crisi umanitaria gravissima, in una regione che peraltro è stata flagellata negli ultimi anni da una lunga siccità e dalle devastazioni provocate dagli sciami di locuste. Secondo l’Ufficio Onu per gli affari umanitari (OCHA) il 90% dei quasi 8 milioni di abitanti necessita di urgente assistenza. Il Programma alimentare mondiale stima, dal canto suo, che almeno 400 mila tigrini rischiano di morire di fame.

«In nessuna parte del mondo si può vedere un tale livello di crudeltà», aveva dichiarato negli scorsi mesi il direttore generale dell’Organizzazioni Mondiale della Sanità (Oms), Teodros Ghebreyesus, secondo il quale nella regione del Tigray è in corso il peggior disastro al mondo. Una catastrofe di cui è difficile conoscere le proporzioni, visto il blackout mediatico imposto dal governo di Addis Abeba che non permette di avere accesso materialmente ai luoghi, ma anche alle informazioni.

Anche sul fronte eritreo è difficile conoscere l’esatta dimensione del coinvolgimento delle forze militari del regime di Isaias Afwerki che da quasi trent’anni tiene in ostaggio il suo popolo con politiche liberticide, che prevedono, tra l’altro, il servizio militare a vita. Cosa che ha fatto fuggire migliaia di giovani eritrei lungo le rotte del Sinai e della Libia, dove spesso sono stati vittima dei trafficanti di esseri umani e di pratiche disumane come l’asportazione di organi.

In questo Paese, che è un vero e proprio stato di polizia – dove la Costituzione non viene applicata e non si sono mai tenute elezioni nazionali – recentemente c’è stato un crescente malcontento pubblico per il coinvolgimento nel conflitto tigrino, nonostante il pugno di ferro durissimo. Qualsiasi forma di dissenso, tuttavia, può essere punita in maniera cruenta. E infatti non vengono neppure risparmiate le autorità religiose, come dimostra il caso del vescovo di Saganeti e dei due preti recentemente arrestati.

I vescovi cattolici hanno in più occasioni invitato il governo eritreo a promuovere maggiore democrazia e a porre fine all’autoritarismo, cosa che evidentemente non è piaciuta al regime, al punto che, a partire dal 2019, è stata posta in atto una politica sistematica di chiusura o di espropriazione di scuole e ospedali cattolici con il pretesto che gli enti religiosi non sono autorizzati a gestire questo tipo di istituzioni.

La Chiesa cattolica rappresenta solo il 4% della popolazione eritrea ed è uno dei quattro gruppi religiosi – insieme alla Chiesa ortodossa (maggioritaria), a quella luterana e ai musulmani sunniti – autorizzati a operare nel Paese.