Ruanda, fratelli oltre il genocidio

Ruanda, fratelli oltre il genocidio

La testimonianza di padre Mario Falconi, missionario bergamasco col cuore a Muhura, dove ha vissuto l’esperienza terribile degli anni Novanta: “Il messaggio del Vangelo è l’unica strada per guarire davvero le ferite”

 

«Siamo tutti figli di Dio: amiamoci come tali». Per padre Mario Falconi, 76 anni, missionario barnabita in Ruanda, l’etnia non è mai stata importante. Durante il genocidio – che tra l’aprile e il luglio del 1994 ha prodotto circa un milione di vittime in soli cento giorni di conflitto – ha salvato circa tremila persone, in prevalenza Tutsi o Hutu moderati. Per questo è stato successivamente insignito di diverse onorificenze, tra cui quella di “Giusto del Ruanda”.

Dal 2019, causa problemi di salute, è rientrato in Italia. Ma il suo cuore batte per il Ruanda, «dove spero di tornare al più presto, forse per fine luglio». In Africa c’è arrivato nel 1972, destinazione la Repubblica Democratica del Congo. Quasi vent’anni di missione nell’est del Paese, tra Birava e Bukavu, prima di passare in Ruanda, a Muhura, nel 1990. «La situazione era tesa già all’epoca – ricorda padre Mario, bergamasco di Borgo di Terzo -: i rapporti tra la maggioranza Hutu, che deteneva il potere, e la minoranza Tutsi erano difficili». Nella più ampia cornice degli scontri tra l’esercito regolare e l’ala armata del Fronte patriottico ruandese (Fpr), formato da ribelli Tutsi. «Qui a Muhura la zona era piena di sfollati che scappavano dal confine verso l’Uganda».

Il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale su cui viaggia il presidente Juvénal Habyarimana, di ritorno da un colloquio di pace, viene abbattuto. È l’inizio del genocidio. I patrioti Hutu, riunitisi nella milizia paramilitare Interahamwe, sono intenzionati a vendicarsi della morte del presidente. E si scatenano, armati di machete, bastoni e fucili, contro i Tutsi. «Non sopportavo la vista del sangue, ma in poco tempo dovetti abituarmi. Una di quelle notti fui svegliato dalle suore della missione: c’era un uomo in fin di vita che chiedeva l’estrema unzione. Il suo corpo era reso irriconoscibile dalle violenze infertegli». L’inizio della fine. «I massacri erano quotidiani. Si vedevano solo villaggi saccheggiati e bruciati».

A farne le spese sono anche i bambini. «Un giorno, mentre stavo trasferendo alcuni piccoli Tutsi a Muhura, incontrai un posto di blocco Hutu. Pregai il Signore. Gli dissi che non volevo fare del male a nessuno,  ma i miliziani erano armati di machete e non potevo fermarmi. Spinsi al massimo l’acceleratore. Loro si spostarono e riuscii a forzare il posto di blocco».

Gran parte degli occidentali abbandona il Ruanda. «Avrei potuto prendere un volo di rimpatrio, ma come facevo a lasciar sole quelle persone? Rimasi a Muhura, dove abbiamo accolto, presso la missione, circa tremila bisognosi». L’Interahamwe è vicino: don Mario e la sua comunità di parrocchiani e sfollati, in assetto di difesa, sono pronti al peggio. «Spargemmo in giro la voce, falsa, per la quale i Tutsi dell’Fpr erano già arrivati a Muhura. Questo rallentò i miliziani Hutu, che desistettero dall’attaccarci subito. Alla fine i guerriglieri Tutsi giunsero per primi al nostro villaggio. E così ci salvammo».

Dopo essere rientrato in Italia, a fine aprile 1994, per accompagnare un gruppo di orfani, salvandoli così dal genocidio, padre Mario torna in Ruanda a settembre. «La missione di Muhura era stata saccheggiata. Il mio confratello ruandese, che aveva deciso di rimanere, era stato ucciso. In giro regnavano caos, vendetta e terrore. Ci volle tempo per iniziare a voltare pagina. Capii che ne stavamo uscendo quando sposai una coppia mista. Iniziava la riconciliazione tra Hutu e Tutsi».

A ormai quasi trent’anni dal genocidio, il Ruanda ha provato a cambiare passo. All’insegna di pacificazione e sviluppo. Non senza contraddizioni. Sono state cancellate per legge le etnie. Anche se il genocidio è ancora definito come «commesso solo contro i Tutsi». Al governo, dal 2000, c’è sempre Paul Kagame, ex comandante del Fpr, da alcuni criticato per il suo fare autoritario. La speranza per il futuro del Paese risiede nei giovani. Chi ha meno di 25 anni non ha vissuto il genocidio. «Siamo tutti figli di Dio – conclude padre Mario, che, fino al 2019, ha continuato a operare a Muhura -. Dobbiamo amarci e volerci bene, al di là di etnie e religioni. Siamo fratelli. Ed io mi sento testimone del messaggio evangelico di amarci come Lui ci ha amati. È questo l’insegnamento da tenere presente per il futuro del mio Ruanda».