Giovani che salvano il Pianeta

Giovani che salvano il Pianeta

Non solo Greta: nel mondo tanti attivisti alzano la voce contro gli effetti dei cambiamenti climatici. Alla vigilia dell’evento milanese in preparazione all’incontro Onu di Glasgow ve ne presentiamo alcuni

Catarina Lorenzo ha solo 14 anni, eppure la sua avventura di attivista per l’ambiente dura già da molto tempo: «Si può dire che io lotti fin dal grembo di mia madre!», scherza questa energica ragazzina brasiliana di Salvador de Bahia, con l’apparecchio ai denti e una lunga chioma riccioluta, alludendo all’impegno dei suoi genitori in difesa della locale foresta atlantica di Vale Encantado e della sua eccezionale biodiversità a rischio.
Ma la presa di coscienza personale di Catarina sulle conseguenze dei cambiamenti climatici risale a quando aveva nove anni: «Mentre nuotavo in una piscina naturale vicino a casa mia, notai che in alcuni punti la temperatura dell’acqua era talmente alta che i coralli stavano morendo», racconta. E quando, durante una lezione di scienze, sentì parlare per la prima volta del riscaldamento globale, fece due più due: «Capii che questo fenomeno è già in atto e minaccia gravemente il nostro futuro». E anche il presente, visto che a Salvador la crescente siccità va già di pari passo con i frequenti incendi boschivi e gli episodi di carenza idrica nelle case.
Fu così che Catarina, talentuosa surfista in erba con un amore sconfinato per l’oceano, capì che doveva alzare la sua giovanissima voce e unirla a quella dei tanti ragazzi che, da un capo all’altro del mondo, stavano lottando per promuovere nuovi stili di vita sostenibili e incalzare i governanti sull’urgenza della questione ambientale.

Proprio Catarina Lorenzo, che oggi è la referente brasiliana dei movimenti giovanili ambientalisti Heirs to Our Oceans e Greenkingdom, fa parte dei sedici bambini e adolescenti (tra cui Greta Thunberg) che due anni fa hanno presentato una denuncia al Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia contro l’inazione dei governi – in particolare quelli di Argentina, Brasile, Francia, Germania e Turchia – sulla crisi climatica. Ed è finita a parlare anche davanti ai potenti del mondo al Palazzo dell’Unicef a New York: «Ho detto che a pagare le conseguenze della loro irresponsabilità saremo noi ragazzi», spiega.
Il messaggio di Catarina e delle migliaia di attivisti come lei comincia finalmente ad arrivare a destinazione. Giovani come quelli che tra il 28 e il 30 settembre, a Milano, prenderanno parte a Youth4Climate, un incontro globale in preparazione alla Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà a novembre a Glasgow e a cui potrebbe intervenire anche Papa Francesco.
A Milano arriveranno in 400, tra i 15 e i 29 anni, provenienti da 197 Paesi, da quelli più grandi e influenti fino ai piccoli Stati periferici che, pur essendo i meno responsabili della crisi ambientale, spesso sono i più esposti alle sue conseguenze.

È il caso delle Fiji, Stato arcipelago dell’Oceania composto da 322 isole (di cui solo 106 abitate permanentemente) e 522 isolotti. È cresciuta in queste terre circondate dall’acqua Litia Baleilevuka, che nel 2016, quando aveva appena 18 anni, fu testimone della distruzione causata dal ciclone tropicale Winston, il più intenso mai registrato nell’emisfero australe, che devastò il Paese lasciando dietro di sé 44 vittime e un’infinità di senzatetto. Le case spazzate via o danneggiate furono 40 mila e circa 350 mila persone – il 40% della popolazione delle Fiji – rimasero colpite in modo significativo dalle conseguenze della tempesta. Litia, insieme alla sua famiglia, venne tagliata fuori per tre giorni dal mondo esterno e, quando finalmente il ciclone passò, scoprì che tra le aree cancellate dalla cartina dalla furia degli elementi c’era anche il villaggio di sua madre.
Per la ragazza fu la tragica prova che il cambiamento climatico non ha a che fare solo con l’innalzamento del livello del mare – con le sue potenziali gravi conseguenze in uno Stato fatto di isole – ma intensifica anche gli eventi meteorologici estremi. Per questo da allora Litia, come attivista del movimento Pacific Island Represent, si è trasformata nella voce in difesa della sua terra: mentre studia Legge all’Università, promuove progetti per la mitigazione del riscaldamento globale, incentrati sui modi pratici per ridurre l’uso di combustibili fossili. «È una sfida ardua chiedere ai Paesi più sviluppati di smettere di fare ciò che fanno da anni: inquinare – ha detto alla platea riunitasi due anni fa a Katowice in Polonia in occasione della Cop24 -, ma se non riusciamo a fermarli e a spingerli verso le energie rinnovabili lasceremo che le nostre isole scompaiano completamente».

Un patrimonio prezioso per affrontare le molteplici sfide ambientali del presente è custodito nelle pratiche tradizionali conservate da tanti popoli indigeni che, paradossalmente, sono spesso marginalizzati nella società globalizzata. Ne è convinta Archana Soreng, attivista indiana nata 25 anni fa in un villaggio dell’Orissa da una famiglia della locale tribù khadia. La sua formazione cattolica, unita all’orgoglio per le proprie radici, ha spinto Archana ad approfondire e valorizzare i modi con cui la gente della foresta ha per secoli saputo convivere con la natura.
«La mia famiglia e gli antenati hanno protetto l’ambiente attraverso le conoscenze indigene», ha dichiarato ad AsiaNews la giovane, che dopo aver guidato la commissione tribale Adivasi Yuva Chetna Manch in seno alla Federazione delle Università cattoliche indiane è oggi ricercatrice presso la Vasundhara Odisha di Bhubaneswar, un’organizzazione che si occupa di governance delle risorse naturali e dei diritti tribali in materia di cambiamenti climatici. Un’esperienza che l’anno scorso ha spinto il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres a sceglierla tra i sette giovani membri, provenienti da tutto il mondo, del Gruppo consultivo chiamato a fornire prospettive, idee e soluzioni per affrontare il peggioramento della crisi ambientale. E il mondo adivasi indiano può senza dubbio fornire spunti utili.

«Le comunità indigene hanno Comitati di protezione forestale che si affidano a numerose pratiche tradizionali sostenibili – spiega Soreng -. Se parliamo di inquinamento da plastica, per esempio, le tribù hanno soluzioni alternative, come l’uso di piatti vegetali o di tappeti prodotti con foglie di dattero. Sul fronte della prevenzione degli incendi boschivi c’è la tradizione di recarsi nella foresta durante l’estate per creare con la falce delle fasce tagliafuoco tra le foglie secche, che ostacolano la propagazione delle fiamme. Allo stesso modo, esistono tecniche per affrontare la scarsità d’acqua e per depurarla».
Abitudini e conoscenze che Archana è impegnata a valorizzare insieme a diversi gruppi di giovani a livello regionale e nazionale: «Sull’esempio dei nostri antenati, ora tocca a noi essere i protagonisti nella lotta per la salvaguardia del Creato. L’enciclica di Papa Francesco Laudato si’ è una preziosa fonte di ispirazione: il comandamento di Gesù di amare il prossimo include non solo gli esseri umani, ma anche la natura, che è la nostra casa comune».

L’Africa una paladina dell’ambiente e dei diritti l’ha avuta in tempi “non sospetti”, quando questi temi non erano di attualità (e neppure di moda). Si tratta di Wangari Maathai, ambientalista ante litteram, nonché prima donna africana vincitrice del Premio Nobel per la pace nel 2004, per la sua lotta a difesa dell’ambiente e a favore delle donne. La Maathai è stata certamente una pioniera nel suo Paese, il Kenya, e nel resto dell’Africa, ma anche un esempio significativo per molte donne africane, una speranza di non essere confinate nello spazio domestico, di poter accedere all’istruzione e alle cure sanitarie, di poter scegliere per la propria vita e di essere riconosciute per il fondamentale ruolo di pacificatrici che svolgono all’interno delle comunità. Attraverso il Green Belt Movement, la Maathai ha piantato più di 30 milioni di alberi, coinvolgendo in questo progetto visionario migliaia di donne, che sono diventate così protagoniste della lotta per la salvaguardia dell’ambiente, ma anche per la difesa e la promozione dei loro diritti e della loro dignità.
Non sono molte oggi le “eredi” della Maathai, capaci di tenere insieme visione ambientalista, lotta per i diritti e impegno politico affinché le cose possano cambiare sia dal basso che dall’alto.

Tra le “emergenti” c’è una giovane del Malawi, Gloria Majiga-Kamoto, oggi trentenne, ma che da diversi anni combatte per porre fine, in particolare, all’utilizzo della plastica monouso. Grazie al suo impegno e alle sue campagne che hanno coinvolto diverse ong e migliaia di persone; attraverso le pressioni esercitate sulle autorità del suo Paese e alla resistenza a minacce e intimidazioni, alla fine c’è riuscita: la Corte Suprema del Malawi ha, infatti, confermato il divieto nazionale di produzione, importazione, distribuzione e uso di plastica sottile nel luglio 2019. Nel 2020, dopo una lunga battaglia legale, si è arrivati anche alla chiusura di tre industrie plastiche da parte del governo. E lo scorso 15 giugno, Gloria è stata insignita del prestigioso Goldman Environmental Prize, conosciuto anche come “Premio Nobel per l’ambiente”. Un grande riconoscimento per lei e per lo staff del Centre for Environmental Policy and Advocacy per cui lavora. E una prima assoluta anche per il Malawi, piccolo e poverissimo Paese, incastonato e marginalizzato nel cuore dell’Africa australe. Un Paese che ogni anno produce circa 75 mila tonnellate di plastica, di cui almeno l’80% viene gettato dopo l’uso. Non solo: è la nazione con più rifiuti plastici pro capite rispetto a qualsiasi altro Paese dell’Africa subsahariana, e questo ha avuto un impatto devastante anche sui suoi sistemi di smaltimento.
Purtroppo il trend, in Malawi come nel resto del mondo, non è incoraggiante. Secondo il Plastic Waste Makers Index, nel 2019 sono state smaltite a livello globale oltre 130 milioni di tonnellate di plastica monouso, la maggior parte delle quali è stata bruciata, sepolta in discarica o gettata direttamente nell’ambiente. E si prevede che la produzione aumenterà del 30% in tutto il mondo nei prossimi cinque anni. Anche se, in linea di principio, 170 Paesi avrebbero deciso di ridurne significativamente l’uso entro il 2030. In Italia, come nel resto dell’Ue, la plastica monouso è stata messa al bando a luglio. Con non poche resistenze…

 

Giovani per la terra
Si svolgerà dal 28 al 30 settembre a Milano “Youth4Climate: Driving Ambition”, l’evento preparatorio alla Cop26 di Glasgow, a cui prenderanno parte 400 giovani da 197 Paesi per formulare proposte concrete sulla lotta al cambiamento climatico: youth4climate.live