Dom Luciano e le mani degli ultimi

Dom Luciano e le mani degli ultimi

La Giornata mondiale dei poveri – che cade il 15 novembre – è l’occasione per riscoprire un grande vescovo del Brasile che diceva: «Scegliere loro è incontrare la grandezza della persona»

 

«La preghiera a Dio e la solidarietà con i poveri e i sofferenti sono inseparabili». Nel messaggio per la IV Giornata mondiale dei poveri – che la Chiesa celebrerà domenica 15 novembre – Papa Francesco ricorda questo caposaldo dell’insegnamento biblico. Non basta rifugiarsi nel tempio per dirsi cristiani; tantomeno uscirne incapaci di vedere le sofferenze altrui. In un tempo in cui il povero, nei suoi diversi volti, tende a essere ritenuto la causa di ogni male del mondo e non il risultato perverso delle nostre ingiustizie, diventa per questo opportuno rivolgere lo sguardo a quei testimoni che ci hanno mostrato che la fede diviene credibile con l’amore agli ultimi della società.

Il vescovo dei poveri
Tra questi in Brasile ricordiamo in modo particolare la figura del vescovo gesuita dom Luciano Pedro Mendes de Almeida (1930-2006), la cui causa di beatificazione è in corso a Roma. Fu segretario generale (1979-1987) e presidente (1987-1992) della Conferenza episcopale brasiliana; nel 1988, in Libano, in piena guerra civile, contribuì sul campo al processo di pace; ricoprì anche un ruolo decisivo per il buon esito della complessa IV Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano a Santo Domingo (1992).

Si potrebbe scrivere molto su dom Luciano riguardo ai suoi incarichi nella Compagnia di Gesù, nella Conferenza dei religiosi del Brasile, le sue doti intellettuali. Ma in Brasile e altrove il suo ricordo lo si deve, soprattutto, all’amore incondizionato verso gli ultimi. Era conosciuto come il vescovo dei poveri. Tanto a San Paolo, come vescovo ausiliare (1976-1988), quanto a Mariana, tra le montagne dello Stato del Minas Gerais, come arcivescovo (1988-2006), il suo vero palazzo episcopale fu la strada. Il cardinale Paulo Evaristo Arns, allora arcivescovo di San Paolo, diceva che i poveri erano gli unici a conoscere l’agenda di dom Luciano e sapevano sempre come e quando incontrarlo. Non a caso, sin dagli anni degli studi filosofici, riassumeva il suo programma di vita in queste poche parole: «Per me l’importante è l’altro».

L’altro a cui si riferiva non era astratto. Aveva il volto dei mendicanti ai quali, anche di notte, si avvicinava per servire una minestra calda, porgere una coperta o, addirittura, mettere a disposizione il proprio letto. Erano le popolazioni indigene, il cui diritto al riconoscimento delle proprie terre difendeva dinanzi a un sistema ingiusto. Erano gli adolescenti in situazioni di difficoltà per i quali, nel 1977, fondò la Pastorale del minore, oggi presente anche in altre parti del mondo. Per dom Luciano l’altro era l’essere umano discriminato, ignorato, torturato, affamato, sofferente, in una parola: il povero. Fu la scelta di una vita intera. Poco prima di morire il 27 agosto 2006, al fratello che gli stringeva la mano chiese di promettere che non avrebbe mai abbandonato i «suoi» poveri.

Opzione per la dignità umana
La preferenza per i poveri non nasceva solo dal contesto latinoamericano di disuguaglianza sociale nel quale dom Luciano viveva. Le ragioni erano molto più profonde. Per lui, scegliere i poveri significava aderire all’azione di Cristo nella storia «perché egli ha assunto una posizione ferma dinanzi alla promozione umana: dare dignità alla persona e conferirle la figliolanza divina». L’ha fatto identificandosi con coloro che più soffrivano, attraverso una vita senza privilegi, scegliendo di condividere le situazioni di quanti vivevano ai margini della società. Per dom Luciano, l’autenticità della vita cristiana percorre lo stesso cammino. In un suo articolo scriveva: «Viviamo in un mondo dove molti uomini non rispettano la dignità della persona, né in se stessi né negli altri, dove la società è un luogo sempre più ampio per tutte le forme di promozione, meno che per una fraternità sincera».

Tuttavia, per il vescovo dei poveri, la vera fraternità esige la valorizzazione della dignità degli ultimi, attraverso l’offerta di quelle condizioni necessarie allo sviluppo integrale della persona. Pertanto «optare per i poveri è optare per la dignità della persona umana, non per la sua ricchezza, non per i suoi beni, neanche per la sua influenza, ma per ciò che essa è. E così, optare per i poveri, in fondo, è incontrare la grandezza della persona, nonostante sia stata dimenticata o, a volte, sfigurata». Si comprende, dunque, come l’opzione per i poveri vada oltre l’assistenzialismo, spesso adottato come strategia per mettersi in pace con la propria coscienza. Per dom Luciano si tratta di condivisione esistenziale, cioè «rimanere in quel pezzo che diamo all’altro. È usufruire in comune, con l’altro, di tutto ciò che è buono nella vita, e sopportare insieme tutto ciò che è duro nella vita». Insomma, non si possono amare davvero i poveri mantenendo intatti i propri privilegi o addirittura creandone di nuovi, perché «il Vangelo è molto più che un’elemosina. È entrare nella vita dell’altro, come la madre che condivide la sofferenza e la gioia del bambino».

Tendere la mano
Nonostante dom Luciano Mendes non sia più tra noi ormai da quattordici anni, la sua testimonianza e il suo pensiero si ritrovano in pieno nel messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale dei poveri di quest’anno. Secondo il Papa, infatti, tendere la mano al povero significa, concretamente, assumersi la responsabilità della vita dei più deboli nella società. Si tratta di un impegno costante da parte di chi crede. È ciò che dom Luciano ha fatto e insegnato a fare, remando contro quella cultura dello scarto che ancora oggi genera morte nelle periferie urbane, nei mari dei viaggi della speranza, nelle terre indigene dell’Amazzonia e in tanti altri contesti di dolore. Dobbiamo convincerci, come dice Papa Francesco, che «non potremo essere contenti fino a quando queste mani che seminano morte non saranno trasformate in strumenti di giustizia e di pace per il mondo intero». Vale la pena di ribadirlo: «per il mondo intero», cioè per tutti, senza alcuna distinzione etnica, religiosa o di altro genere.