«Guatemala, l’eredità del martire Gerardi»

«Guatemala, l’eredità del martire Gerardi»

Il 26 aprile 1998, nella casa parrocchiale di San Sebastian a Città  del Guatemala, veniva ucciso il vescovo ausiliare Juan Gerardi, 75 anni, personalità fortemente impegnata per la verità  e la riconciliazione nel Paese. Abbiamo chiesto di ricordarlo a monsignor Alvaro Ramazzini Imeri, vescovo di San Marcos in Guatemala, voce che in questi anni ha raccolto l’eredità  di Gerardi

 

Sono passati dieci anni dal brutale assassinio del vescovo Juan Gerardi. Lui è stato un buon pastore, convinto difensore dei diritti dei più poveri e degli indifesi. Uomini e donne che per anni non hanno potuto alzare la voce per reclamare ed esigere rispetto per la loro dignità umana e per la loro condizione di figli e figlie di Dio.

Nell’assassinio premeditato e astutamente pianificato contro il vescovo Juan Gerardi e contro molti altri che come lui si sono fatti araldi del Vangelo della verità e della giustizia – come nella crocifissione e morte di nostro Signore Gesù Cristo, pianificata e voluta dalle autorità religiose ebraiche del tempo in connivenza con Ponzio Pilato, rappresentante dell’imperatore romano a Gerusalemme -, dobbiamo vedere, al di là degli elementi storici e delle circostanze, un significato storico più profondo, coerente, comprensibile solo dal punto di vista della fede.

Gesù è passato per questo mondo «facendo il bene». Tutta la sua vita, le opere, le parole, sono un’espressione chiara e coinvolgente dell’amore di Dio. Perché allora è stato crocifisso? Qual è stata la ragione della sua morte?

Sono le stesse domande che assediano i nostri pensieri a dieci anni dall’assassinio del vescovo Gerardi: perché è stato assassinato? Chi ha pianificato la sua morte? Che cosa speravano di ottenere con questo omicidio? È stato un atto di vendetta perché lui è stato un buon pastore che ha difeso il suo gregge? È stata una manovra politica il cui obiettivo andava al di là dell’uccisione del vescovo?

Se c’è qualcosa che ha caratterizzato la vita del vescovo Gerardi è stata la sua passione per la verità, la giustizia, la libertà e l’amore per i poveri e gli esclusi. Questa passione lo ha portato a elaborare e sostenere il progetto denominato Proyecto de recuperación de la memoria histórica (Remhi). Infaticabilmente, fino all’ora della morte, ha cercato di aprire spazi che offrissero alla società guatemalteca un’alternativa di vita e non di morte, come invece faceva la repressione senza nessuna misericordia. Annunciava e difendeva il valore della vita umana, come parte essenziale del progetto di Dio, contro tutto ciò che la distruggeva: gli assassini extragiudiziari, le persecuzioni ai danni dei difensori della giustizia, la miseria e la povertà estrema che generavano fame e denutrizione nella sua terra.

Il sogno immenso del vescovo Gerardi è stato quello di raggiungere una pace stabile e duratura nel quadro di una riconciliazione che aiutasse a sanare le ferite profonde che il conflitto armato aveva provocato con il suo tragico strascico di morte e di violenza. In America Latina sono tanti i laici e le laiche, i vescovi, i sacerdoti, i catechisti e le persone interamente consacrate a Dio che hanno versato il loro sangue per seguire Gesù in modo fedele e coerente. E questo è successo in modo particolare in Guatemala, dove quattordici sacerdoti sono stati assassinati durante il conflitto armato, insieme a numerosi cristiani che non hanno avuto paura di morire. Le parole di Gesù ratificate dal suo esempio – «non abbiate paura di chi uccide il corpo» – hanno orientato la loro esistenza, hanno animato il loro spirito, li hanno resi audaci e coraggiosi.

Il vescovo Juan Gerardi, col Progetto Remhi, ha cercato di rivendicare la memoria di questi uomini e donne fedeli al Padre nella loro scelta di seguire il Signore, dimostrando che le strategie usate per eliminare queste persone, il cui unico intento era quello di instaurare il Regno di Dio, sono state freddamente calcolate nell’oscurità dell’inganno, del fanatismo politico, delle rivendicazioni ideologiche e delle manipolazioni. È per questa iniziativa, per i suoi diversi e profondi significati e le conseguenze che ne sarebbero derivate, che questo pastore è stato chiamato a dare testimonianza della sua coerenza e integrità donando la sua stessa vita.
Fin dall’inizio i cristiani hanno sofferto a causa di persecuzioni. Prima sono stati perseguitati dalle autorità ebraiche, poi dagli imperatori romani. Questi ultimi vedevano con timore e grandissima preoccupazione come il loro potere mondano, la loro autolatria imposta e i difetti di ogni impero venivano sovvertiti dalla forza della testimonianza di quanti, senza paura della morte, entravano nella vita eterna, mostrando il loro immenso amore per il Signore risorto.

L’esperienza esistenziale di essere amato e amare il Signore ha sostenuto e sostiene i martiri, che sono non solo testimoni della verità, ma soprattutto testimoni dell’amore. Sono i perfetti evangelizzatori. La storia della passione e morte di Gesù e dei martiri è una storia d’amore, perché «nessuno possiede amore più grande di chi dona la vita per gli amici». (Gv 15,13)

Il vescovo Gerardi ha amato profondamente il suo popolo e ha sempre cercato il bene comune, che non si poteva raggiungere senza manifestare la forza della verità. Le ferite profonde che ancora oggi toccano l’anima dei guatemaltechi devono essere guarite col balsamo dell’amore. Chi ama veramente ha la capacità di affrontare la verità per correggere gli errori e orientare il futuro su percorsi di concordia. Il vescovo Gerardi, cosciente di tutto questo, non ha risparmiato sforzi affinché ciò si realizzasse.
I martiri sono stati uomini e donne fedeli alla loro vocazione cristiana nelle circostanze storiche in cui hanno vissuto. Sono diventati santi vivendo in mezzo al mondo, senza essere del mondo. Il mandato di Gesù di essere luce del mondo e sale della terra non è possibile senza questo mondo e questa terra.

Questo presuppone anche un’incarnazione nella vita e nella realtà concreta del tempo. Non si tratta solo di annunciare il Vangelo della vita e della pace, ma anche di adattarlo alla vita quotidiana con uno spirito profetico. Così si portano allo scoperto i pensieri e i sentimenti più intimi, scoprendo tutto quello che si oppone alla volontà di Dio.

Cosciente di questo, il vescovo Gerardi, due giorni prima di essere ucciso, presentando pubblicamante nella cattedreale di Città del Guatemala i risultati delle indagini sulla storia della violenza del Paese – raccolti in quattro volumi intitolati Guatemala nunca más (Guatemala, mai più) – diceva: «Vogliamo contribuire alla costruzione di un Paese diverso. Per questo abbiamo recuperato la memoria del popolo. Questo cammino è stato e continua ad essere pieno di rischi, ma la costruzione del Regno di Dio comporta dei rischi e solamente i suoi edificatori hanno la forza di affrontarli». Sì, un Paese diverso, un Paese in pace, con la pace vera che viene solo da Gesù Cristo, fondata sui pilastri della verità, della libertà, della giustizia e della carità. Era il Paese sognato da questo vescovo. Per questo Paese aveva corso il rischio di sostenere il progetto Remhi, arrivando fino alle ultime conseguenze. Non con le sue sole forze, ma con la forza che viene dall’alto, perché non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di fortezza.
In questo contesto, l’assassinio del vescovo si è trasformato in una coraggiosa denuncia di un sistema che per anni ha spogliato i guatemaltechi della loro dignità  e del loro diritto a vivere con gioia e tranquillità. Un sistema in cui si idolatra il denaro, il potere e il piacere, a detrimento dei più poveri e dei più deboli, cioè dei popoli indigeni e dei contadini. Il vescovo Gerardi conosceva molto bene la realtà indigena e contadina dai suoi anni giovanili come sacerdote e poi come vescovo di Verapaz e del Quiché.

Le fede vissuta fino all’estremo nel dono della propria vita ci apre alla trascendenza di Dio e ci incoraggia ad assumere l’impegno a rendere presente nella storia l’utopia del Regno di Dio. I martiri e i testimoni della fede danno ragione alla croce di Cristo e rendono possibile la speranza di un futuro differente, di un’umanità rinnovata, di cieli e terra nuova. Hanno dato le loro vite affinché nei nostri popoli la speranza si mantenga sempre viva. Nella debolezza del loro corpo mortale hanno permesso che si rendesse presente la forza del Signore risorto, e così, anche se agli occhi dei loro assassini e persecutori la loro morte è stata inutile e ha rafforzato la loro arroganza e superbia, la verità è stata un’altra: loro vivono per sempre. Questa è la verità definitiva. Verità e storia definitive anticipate nella morte dei testimoni della fede: Oscar Romero, Juan Gerardi e tanti tanti catechisti e delegati della Parola in tutto il continente americano.

Finché esisteranno realtà che denigrano l’essere umano, negandogli il valore della sua dignità di persona creata a immagine e somiglianza di Dio, redenta dal Sangue dell’Agnello, i cristiani sono chiamati a testimoniare la loro fede, speranza e carità.
La testimonianza sarà sempre scomoda per coloro che sono del «mondo». Se i testimoni sono perseguitati, attaccati o assassinati, il loro sangue sarà sempre seme di più numerosi e migliori cristiani. Gesù Cristo e lo Spirito Santo muovono la Chiesa e la invitano a intraprendere il cammino della spiritualità del martirio per testimoniare il Regno a partire dai poveri e dagli esclusi.
Oggi, per la Chiesa universale e in particolare per la nostra Chiesa del Guatemala, la testimonianza del vescovo Gerardi e di quanti sono stati assassinati per la loro scelta a favore del Signore, è una sfida e uno stimolo a continuare il loro cammino: quello della costruzione di una società più umana, segno palpabile della presenza di Dio. Il sangue di monsignor Gerardi sarà seme di nuova vita e di fortezza per coloro che credono in Gesù, che è stato crocifisso, è morto e il terzo giorno è risorto e un giorno verrà a giudicare l’umanità intera.