Il Cile scosso dalle proteste rinuncia alla Cop25

Il Cile scosso dalle proteste rinuncia alla Cop25

Mentre non si fermano le proteste a Santiago del Cile, il presidente Piñera ha preso la decisione di rinunciare a ospitare l’annuale conferenza sul clima delle Nazioni Unite. I vescovi cileni esprimono la necessità di ritrovare la coesione nazionale per superare il profondo malessere sociale in cui versa la popolazione

 

È di ieri la notizia che il presidente cileno Sebastián Piñera ha deciso di rinunciare a ospitare la venticinquesima Conferenza delle parti (COP25), l’incontro annuale organizzato dallo UN Framework Convention on Climate Change (la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici  o UNFCC). La notizia arriva in concomitanza con la rinuncia a un’altra conferenza, quella per la Cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC) che avrebbe coinvolto i presidenti Donald Trump e Xi Jinping per una messa a punto di un preliminare accordo economico.

La rinuncia ad ospitare questi due importanti appuntamenti internazionali nasce a seguito delle proteste che stanno infiammando la capitale, Santiago, inizialmente designata come sede della COP25, che ora potrebbe tenersi in Costa Rica, Paese co-organizzatore, oppure in Germania, a Bonn, dove si trova la sede dell’UNFCC. Tuttavia i vertici ONU non hanno ancora preso una decisione definitiva.

Va detto che il vertice sul clima non trova pace, dal momento che prima del Cile era stato il Brasile di Bolsonaro a non voler ospitare la conferenza che inizialmente avrebbe dovuto tenersi a Rio de Janeiro, a 25 anni dal primo storico accordo. A detta dell’attuale amministrazione brasiliana la COP25 sarebbe stata solo un momento di “allarmismo climatico”.

Diverse invece le motivazioni che hanno portato Piñera a rinunciare a ospitare la conferenza: sulla scia di altre proteste mondiali, dopo l’annuncio di un aumento del biglietto della metro, nella capitale cilena sono in corso dure proteste che nei giorni passati sono anche sfociati in episodi di violenza con la scelta del governo di Santiago di schierare l’esercito nelle strade. Il presidente cileno ha dichiarato che la preoccupazione principale del governo ora è concentrarsi “nel ristabilimento dell’ordine pubblico, della sicurezza dei cittadini e della pace sociale”. L’aumento del prezzo del biglietto della metro è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché quella che si è persa in Cile è la coesione sociale a seguito di un aumento delle disuguaglianze.

Secondo Valori, l’economia cilena “è una delle più inique dell’America Latina”. Se a livello macroeconomico il Cile appare come un Paese virtuoso (registra un Pil pro capite vicino ai 25mila dollari, un’inflazione bassissima rispetto ai vicini regionali e il debito pubblico vale meno di un quarto del prodotto interno lordo), guardando com’è distribuita questa abbondanza notiamo che “circa un decimo della ricchezza nazionale è controllato da meno di 550 famiglie”.

Monsignor Santiago Silva Retamales, vescovo castrense e presidente della Conferenza episcopale cilena (Cech), in un’intervista rilasciata ad AgenSIR, ha ricordato come già nel 2017 in una lettera pastorale i vescovi avessero già evidenziato le prime avvisaglie del malessere in cui versava una parte della popolazione. “La differenza tra le classi, la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, la precarietà lavorativa per la mancanza di applicazione delle leggi sul lavoro, i bassi stipendi dei lavoratori e la bassissime pensioni producono molta frustrazione e rabbia e queste generano violenza. Dall’altra estremità ci sono gruppi che, per la loro posizione sociale e la loro ricchezza, esercitano un potere reale difendendo i loro interessi, a volte in modo illegittimo, arrecando una ferita all’etica e anche infrangendo la leggi per ottenere maggiori rendite particolari e, come conseguenza, mantenendo le diseguaglianze”, si poteva leggere nella lettera.

Il vescovo ha poi condannato gli scontri violenti che si sono generati: “Condanniamo in modo deciso ogni tipo di violenza, perché essa compromette la nostra convivenza e peggiora la nostra amicizia civica e la pace sociale”.

È dello stesso parere anche Mons. Héctor Vargas, vescovo della diocesi di San José di Temuco, che in una nota pervenuta all’agenzia Fides afferma la necessità di ritrovare quel senso di comunità alla base di una nazione. Qualunque tipo di soluzione “richiede il superamento dell’individualismo asociale e l’apertura a un senso di comunità. In altre parole, avere il senso del ‘noi’. Quindi, la domanda-chiave non è ciò che si adatta a un individuo o un gruppo sociale, ma ciò che conviene al Paese”, ha dichiarato Vargas.

La nota si conclude con un appello alle autorità: “il ruolo dello Stato, le politiche pubbliche, l’autonomia attiva della comunità sociale e delle organizzazioni intermedie, sono sostanziali per compiere passi verso un Cile più giusto e fraterno”.

Nonostante la fine dello stato di emergenza e il rimpasto di governo, ci sono ancora stati sporadici episodi di vandalismo nella capitale, ma allo stesso tempo sono sorte iniziative di dialogo promosse dalla Chiesa. In particolare il vescovo di Conceptiòn Fernando Chomali ha inviato una lettera ai propri sacerdoti in cui invitava a creare momenti di dialogo in parrocchia. I giovani cileni, su impulso della Pastorale della gioventù, hanno colto la palla al balzo, e la settimana scorsa si sono incontrati per discutere della realtà economica e sociale del Cile e guardare al futuro.