AL DI LA’ DEL MEKONG
La dismisura della sete

La dismisura della sete

Per chi è familiare con le Missionarie della Carità sa che in ogni loro cappella, ovunque si trovino nel mondo, accanto al Crocifisso, campeggia la scritta “I thirst”, ho sete, secondo quanto raccontato dall’evangelista Giovanni. Quella scritta è diventata per me un vero e proprio koan…

 

«La fede (che pensai bastasse)
è un pozzo a dismisura della sete»

Alcune settimane fa a Phnom Penh ho predicato l’annuale ritiro spirituale alle Missionarie della Carità, meglio note come suore di Madre Teresa. Le giornate cominciavano con la levata alle 4,20. E poi via fino a sera, per otto giorni, in un crescendo di preghiere e orazioni. Per chi è familiare con le suore sa che in ogni loro cappella, ovunque si trovino nel mondo, accanto al Crocifisso, campeggia la scritta “I thirst”, ho sete, secondo quanto raccontato dall’evangelista Giovanni (Gv 19,28).

Se da una parte il grido esprime la sete fisica provata da Gesù nel momento della morte in croce, dall’altra esprime anche quella sete per Dio e per l’umanità che ha sempre guidato il Figlio di Dio in vita e ancora permane in Lui, in Cielo. Soddisfare questa sete spirituale è diventata una delle ragioni della missione della Chiesa ed è stata l’intuizione originale che ha spinto Madre Teresa a fare quello che ha fatto.

Sulla santa di Calcutta si è scritto e detto tanto, non sempre con rispetto. Christopher Hitchens, per esempio, descrive la Madre come una opportunista che si è servita dei poveri per promuovere se stessa e raggiungere la santità. Di fronte a simili posizioni è importante leggere con attenzione e fino in fondo (1), senza prestare il fianco alla polemica o alla contrapposizione ideologica.

Quanto al nostro ritiro: quella scritta «Ho sete», è diventata per me un vero e proprio koan. Secondo la pratica Zen un koan può essere il frammento di un discorso, sotto forma di domanda, di paradosso o di aneddoto, molto breve, tratto dall’esperienza di un maestro spirituale, che ha lo scopo di avviare la pratica meditativa. Si comincia da lì, ma un koan si rivela efficace nella misura in cui l’esercitante, meditando, riuscirà ad immedesimarsi con quel frammento, a vivere in accordo con esso, fino a superare ogni dualismo tra pratica e illuminazione.

Se dunque considerassimo l’invocazione di Gesù sulla croce, «Ho sete», nella prospettiva del koan, allora dovremmo diventare quella stessa sete, vivere di essa e in accordo con essa. Come Gesù che non solo ebbe sete, ma fu quella sete. Visse di essa e patì per essa. Quella sete fu la forma della Sua fede. Quanto poi al frutto della meditazione, verrà: da dentro di sé, secondo una prospettiva immanente tipicamente Zen, o da fuori di sé (per quanto agisca interiormente) secondo una prospettiva cristiana, strutturalmente aperta all’irruzione del divino che è trascendente. Non a caso quell’irruzione viene spesso descritta dai mistici con l’immagine della pioggia che cade dal cielo e feconda la terra. «Ecco cade, nel silenzio, una goccia – scrive il poeta Clemente Rebora – qua, là, crepita l’acqua: / ora scroscia sonora, / su alberi in fiore […] ovunque […] il grigio no della morte si sperde / nel sovrano sì della vita […] fresca appare la quiete del verde: /al Creatore amante tutto s’intona» (2). Che meraviglia!

Che meraviglia anche la prospettiva spirituale tracciata dal koan che va nel senso dell’essere quella sete. Allora si comprende il proseguo dei versi di Rebora che scrive, «O Gesù, aver sete, / anelarti così!»: aver sete come Te e di Te, anelarti così, può bastare! Quel «aver sete» è la postura giusta, la miglior definizione della fede, cuore arso e riarso dal puro desiderare tutto e tutti in Dio. È pur vero che dopo un’iniziale contaminazione, prima o poi la tradizione Zen e quella cristiana cominceranno a divergere per via dell’incombente presenza del Mistero e della Sua sete di noi.

Mi appaiono finalmente chiari anche i versi di un altro poeta che mi accompagna da anni, Renzo Barsacchi. In una sua poesia descrive la fede come «un pozzo a dismisura della sete» (3), lasciando intendere che si tratta di una sete particolare. Una sete che non cerca acqua, ma altro: la «dismisura». E infatti – continua il poeta – «non è la sete a far salire l’acqua / ma l’amor della sete a far discendere / sino al cuore del fondo». L’amor per la sete di Gesù in croce. «Aver sete / anelarti così» Gesù, come Tu hai anelato noi, è dunque la postura giusta, la «dismisura» della sete che è fede, puro desiderare tutto e tutti in Dio. Bisognerà pur dire che la sete del Figlio di Dio e l’esperienza di fede che genera, sono l’evidenza storica che quel monoteismo da cui provengono è, alla fine, un umanesimo (4). Per quell’ansia di rapporti umani così costante, così prevalente, che immette nella storia del mondo.

Rebora invece chiude la sua poesia con l’anima che «indíata, ringrazia». Il corsivo (nostro) è d’obbligo. Che vorrà mai dire che l’anima si è «in-dí-ata», se non che per «amor della sete», si è innestata, accasata, rifugiata in-Dio? «O Gesù, aver sete, / anelarti così!». Fino a Casa. Questo mi basta. Così sia.
La foto in apertura ritrae la cappella delle Missionarie della Carità di Cham Chao in Phnom Penh, mentre la foto che chiude mostra la quarta piccola scuola ormai pronta. Grazie ancora a chi ha reso possibili questi passi.

 

  1. C. Hitchens, La posizione della missionaria. Teoria e pratica di Madre Teresa, Roma 2018.
  2. C. Rebora, Canti dell’infermità, in Le poesie (1913-1957), Milano 1988, p. 401.
  3. R. Barsacchi, Marinaio di Dio, Firenze 1985, p. 55.
  4. Cfr. E. Levinas, Difficile libertà, Milano 2004, p. 343.