La sinodalità che parte dal basso

La sinodalità che parte dal basso

La condivisione con le comunità locali, la partecipazione al Sinodo per l’Amazzonia. Per padre Dario Bossi, missionario comboniano, dovrebbe diventare uno stile di vita e di Chiesa permanente. Come racconterà mercoledì 30 al Centro Pime di Milano nella serata «Amazzonia: le sfide del dopo Sinodo»

 

Per oltre un decennio ha lavorato al fianco della comunità di Piquiá de Baixo, nella regione di Carajás in Brasile, vittima dei processi di estrazione mineraria, maturando un’esperienza straordinaria di mobilitazione e di sensibilizzazione anche all’interno della Rete Ecclesiale Panamaz­zonica (Repam), della Commis­sione sull’estrazione mineraria e l’ecologia integrale della Conferenza episcopale brasiliana e della Rete latinoamericana Iglesias y Minería.

Padre Dario Bossi, 47 anni, attualmente provinciale dei missionari comboniani del Brasile, ha messo molto delle sue riflessioni, delle sue competenze e della sua esperienza sul campo anche nell’enorme lavoro di preparazione al Sinodo per l’Amazzonia. E, nelle scorse settimane, in veste di padre sinodale, le ha condivise anche con gli altri partecipanti a questo straordinario evento che si è svolto a Roma, dal 6 al 27 ottobre. Un’esperienza di cui traccerà un bilancio mercoledì 30 ottobre alle ore 21 al Centro Pime di Milano (Sala Girardi, via Mosé Bianchi 94) nella serata «Amazzonia: le sfide del dopo Sinodo».

Padre Dario, che cosa insegna l’esperienza di Piquiá de Baixo?

«Si è trattato di rivendicare non solo i diritti di una piccola comunità, ma di denunciare un intero sistema basato su un’alleanza esplicita tra potere politico e potere economico con una visione molto a corto raggio. La nostra lotta al modello estrattivista e al saccheggio dei beni comuni ha infatti riguardato 27 municipi, 100 comunità e circa 2 milioni di persone, in due Stati del Brasile, lungo 900 chilometri di ferrovia».

Quanto è stato importante il coinvolgimento dal basso delle popolazioni?

«All’inizio, quando è cominciato l’enorme progetto di estrazione ed esportazione del ferro con un territorio vastissimo deturpato dalle miniere e dalle imprese siderurgiche, la sensazione è stata di un’incredibile sproporzione tra noi e loro: una sensazione di invasione e di impossibilità a resistere contro giganti come la Vale, una delle più grandi multinazionali al mondo. L’impatto è stato così violento e dirompente che la popolazione, più che provare a reagire, tendeva a cercare forme di adattamento. Invece, grazie a una congiuntura propizia, si è creata un’alleanza con organizzazioni della società civile e della Chiesa, che ha permesso di mettere a punto una strategia di resistenza e di opposizione su più livelli, facendo emergere anche gli interessi internazionali…».

Tipo l’Ilva di Taranto?

«È un esempio. I minerali che alimentano l’Ilva, infatti, vengono proprio dalle miniere di Carajás.  Ma oltre alla denuncia è stata importante anche la solidarietà che si è creata tra la comunità di Piquiá de Baixo e quella del quartiere Tamburi di Taranto, che hanno subìto le stesse ripercussioni nefaste dell’inquinamento. Questo percorso può ispirare anche altri, come peraltro già avviene: abbiamo infatti realizzato interscambi molto fruttuosi tra la nostra esperienza e la resistenza di comunità in Paesi come Canada o Mozambico ».

Qual è oggi la situazione degli abitanti di Piquiá de Baixo ? Si sono trasferiti sulla nuova terra?

«Non ancora. Abbiamo conquistato la terra e avevamo ottenuto un contratto in base al quale la comunità aveva diritto alla costruzione delle sue nuove case. Purtroppo, con il cambio di governo questo processo è di nuovo a rischio. Ma è tutta la politica in generale che oggi prova a smontare i sistemi sociali e a minare i diritti fondamentali delle persone, le conquiste dei lavoratori, il rispetto delle minoranze…».

La vostra è stata anche un’esperienza significativa di Chiesa e di missione che camminano davvero con la gente. Che messaggio se ne può trarre anche alla luce del Sinodo?

«La Chiesa può essere un attore molto rilevante in questi processi. E di fatto lo è stata. Recente­mente la Conferenza episcopale brasiliana ha creato anche una nuova Commissione miniere ed ecologia integrale. La questione dell’estrazione mineraria è così grave che i vescovi hanno deciso di creare una commissione permanente, con 5 vescovi e consulenti» (tra cui anche padre Bossi – ndr).

Questa attenzione è anche frutto della Laudato si’ e di una maggiore sensibilità rispetto al legame tra Vangelo e cura della Casa comune?

«Non solo la Laudato si’, ma anche il Sinodo. In una rilettura dell’ecologia integrale questo punto è centrale. Separare le comunità che vivono nei loro territori – in Amazzonia come altrove – dalla questione della preservazione ambientale non ha senso. Per noi è chiaro: il modo migliore di avere cura della Casa comune è dare appoggio e convalidare le pratiche ancestrali e storiche che le comunità locali sperimentano e mettono in atto convivendo e rispettando la natura».

Quali gli elementi più interessanti e “profetici” dell’esperienza di questi anni della Rete latinoamericana Iglesias y Minería?

«La rete è presente in una decina di Paesi, ha carattere ecumenico e promuove scambi anche con altri continenti. Lavoriamo su alcune aree tematiche: l’eco-spiritualità, ovvero su come la rete si può alimentare delle spiritualità diverse, non solo cristiane, nella resistenza alle aggressioni e nella proposizione di modi di vita sostenibili; la comunicazione, cioè su come si può essere protagonisti delle trasformazioni locali, dal basso, anche attraverso la condivisione di storie, narrazioni e formazioni; e una campagna “disinvestimento” per fare in modo che gruppi religiosi, diocesi, congregazione o altri ritirino i loro investimenti dal mondo dell’estrazione mineraria. Infine, azioni di lobbying per avere anche un’incidenza politico-istituzionale, come la recente presa di posizione della Conferenza episcopale latino-americana che ha pubblicato un documento molto forte su questo argomento e la collaborazione con il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano integrale».

Tutti questi temi sono stati anche al centro del Sinodo per l’Amazzonia. C’è stato un vero coinvolgimento della base?

«Assolutamente sì. Forse è proprio questa la forza maggiore del Sinodo: il fatto che si sia lavorato moltissimo per prepararlo, con più 87 mila persone coinvolte direttamente a tutti i livelli, con molti gruppi che si sono attivati e vari incontri tematici che sono stati realizzati. È stato fatto un grande lavoro anche con le religioni non cristiane (ad esempio le religioni afro), ma pure con scuole, sindacati, altre espressioni della società civile… Sono stati prodotti 266 rapporti in 9 Paesi che sono stati inviati alla Repam più quelli delle Conferenze episcopali. Insomma, un materiale enorme che ha contribuito grandemente a definire lo spirito dello strumento di lavoro. Le comunità vi si sono riconosciute. Questa è la risposta più efficace alle critiche che gruppi minoritari e senza alcun tipo di presenza e conoscenza dell’Amazzonia hanno rivolto al Sinodo».

E i popoli indigeni come sono stati coinvolti?

«Ben 172 etnie indigene su circa 340 presenti in Amazzonia, ovvero più del 40%, sono state direttamente consultate o coinvolte».

Da padre sinodale, che contributo specifico ha portato? Su che temi e priorità?

«Certamente il tema dell’estrattivismo è stato al centro dei miei interventi, anche perché la questione era stata affrontata in maniera incompleta nell’Istrumentum laboris.

Inoltre, ho condiviso la preoccupazione per il diritto alla vita e al territorio specialmente delle comunità indigene, che si basano sull’agro-ecolologia e sul cooperativismo; ma anche la denuncia dei grandi progetti che considerano l’Amazzonia un deposito di commodities che devono essere esportate».

E ora, che cosa resterà del lavoro fatto con la base?

«Questo processo ha, da una parte, consolidato il volto di una Chiesa che si mette all’ascolto. Ha rappresentato anche una sorta di ripartenza nel creare un rapporto di fiducia che in alcune situazioni si era guastato a causa di un atteggiamento a volte un po’ troppo “coloniale” della Chiesa e dei missionari. La grande partecipazione e la sinodalità che hanno contraddistinto questo lavoro hanno creato anche grandi aspettative. Ora ci si aspetta un lavoro altrettanto grande di restituzione. La Repam sta già pensando a come continuare a tessere questo lento e consolidato rapporto con le comunità».

E del Sinodo?

«Alcune dimensioni e intuizioni, così come alcune proposte pastorali, sono già realizzabili, ma hanno bisogno di un atteggiamento nuovo, ad esempio per smontare il clericalismo ancora molto diffuso, costruire processi compartecipati, far avanzare l’inculturazione, dare spazio alle vocazioni locali…. Il Sinodo, dal canto suo, deve aprire possibilità canoniche e pastorali nuove».

Quale impatto pensa che questo Sinodo possa avere sulla Chiesa universale? Su che aspetti in particolare?

«Pur essendo un Sinodo speciale, il fatto di realizzarsi a Roma con padri che vengono anche da altre Chiese ha un significato molto rilevante. Alcune proposte a livello pastorale sono certamente specifiche, però aiutano tutta la Chiesa a riflettere anche in continuità con le intuizioni del Vaticano II. Il Concilio concepisce la Chiesa come collegialità e stimola per questo le Chiese locali a considerare il loro modo di essere e di porsi. Non occorre che si replichi il modello cattolico romano di cultura eurocentrica in tutti i contesti. Mantenendo la fedeltà all’essenziale della dottrina e dell’espressione liturgica, il Sinodo può permettere una riflessione più avanzata su cosa significa essere una Chiesa inculturata e quale ricchezza si può trarre dalla capacità di dialogo con altre religioni e culture. Il dialogo non indebolisce la nostra identità cattolica o il nostro vincolo di fedeltà a Gesù Cristo. Anzi, ci rende meno miopi di fronte alle sfide importanti per la Chiesa universale».

Un auspicio?

«Più che un auspicio vorrei ricordare le tre “conversioni” provocate dal Sinodo. Una conversione pastorale, seguendo la linea dell’Evangelii gaudium, per una Chiesa capace di aprirsi al dialogo e di mettere in movimento processi, non di occupare territori. Una conversione ecologica integrale orientata dalla Laudato si’. E una conversione sinodale, affinché il Sinodo non sia solo un evento specifico e tematico, ma uno stile di vita e di Chiesa permanente, riprendendo anche la grande intuizioni dell’Episcopalis communio che, nella parte introduttiva, ispira un modello di Chiesa, che prevede la partecipazione di tutte le sfere e le diversità».