Un Vangelo per i ticuna

Un Vangelo per i ticuna

Il cammino del Sinodo per l’Amazzonia, che si tiene in questo mese a Roma, raccontato da fra Paolo Maria Braghini, che vive il ministero in canoa tra i villaggi degli indios dell’Alto Solimões in Brasile: «Lo Spirito sta già lavorando qui tra noi in Amazzonia»

 

Settantadue villaggi nel cuore della foresta da raggiungere pagaiando con la canoa. Sempre con la forza di chi vivendo con gli indios ha scoperto la gioia del Vangelo. Quando lo incontri te la trasmette tutta con il suo sorriso fra Paolo Maria Braghini, giovane missionario cappuccino italiano, da quattordici anni parroco della riserva indigena dell’Alto Solimões, nel profondo dell’Amazzonia brasiliana, al confine con il Perù e la Colombia. E il suo volto in questo mese in cui a Roma si tiene il Sinodo convocato da Papa Francesco sul tema «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale» diventerà familiare anche per i telespettatori italiani. Nella trasmissione di RaiUno A Sua Immagine sarà infatti lui a raccontare dalla foresta l’Amazzonia e i suoi popoli nell’appuntamento che precede la recita dell’Angelus in piazza San Pietro.

Originario di Sesona, una frazione di Vergiate (Va), pensava a tutto tranne che alla missione Paolo Maria: era fidanzato, progettava di sposarsi. Finché un giorno a Lourdes ha avvertito la chiamata a donare tutta la sua vita. La missione l’ha scoperta proprio con il Pime, attraverso padre Adriano Cadei. «Ma poi il Signore ancora una volta mi ha condotto – racconta -. Durante un pellegrinaggio ad Assisi ho incontrato fra Gino, un frate cappuccino da 40 anni in missione qui nell’Alto Solimões, nell’Amazzonia brasiliana. Lui raccontava la sua vita e io sentivo una gioia grande».
Così quattordici anni fa è a Belem do Solimões, l’area indigena dove vivono gli indios ticuna (insieme anche a qualche comunità di etnia kokama). «Non esistono strade per raggiungere i nostri villaggi: si arriva solo con la canoa – spiega il missionario -. Ad alcuni si arriva pagaiando in poche ore, altre volte ci vuole un giorno o più. E tutto poi dipende dal fiume: tra quando è secco e quando si alza ci sono anche otto o nove metri di dislivello. Lo stesso villaggio puoi raggiungerlo in un’ora o in cinque, a seconda della stagione».

«Quando sono arrivato – racconta fra Braghini – la parrocchia era abbandonata da una quindicina d’anni. Il vescovo precedente nel 1971 aveva avuto un’intuizione profetica: creare la parrocchia in una riserva indigena, proprio per una cura pastorale differenziata. Ma quando l’ultimo frate anziano era tornato in Italia non si era trovato più nessuno disponibile a venire».

«Stiamo facendo un cammino molto bello – continua il cappuccino italiano – che è insieme di evangelizzazione e promozione sociale. Prima di tutto ci siamo messi in ascolto dei loro problemi. Ad esempio l’alcolismo e il suicidio tra i giovani: stanno vivendo un periodo di crisi di identità collettiva. Siamo in una fase in cui le città diventano più vicine, la globalizzazione sta entrando nei loro territori. Si sentono indios ma quando vanno in città si riconoscono totalmente differenti dagli altri. Per cui avrebbero il desiderio di entrare a far parte della società ma si ritrovano esclusi. E sono i giovani a soffrire di più». E invece avrebbero molto da trasmettere. «A me hanno donato la genuinità, la verità della vita – racconta il missionario -. Le relazioni qui sono vere, spontanee. La stessa fraternità la insegnano loro a noi frati: vivono tutto con lo spirito del villaggio. E poi la gioia di vivere: hanno sempre il sorriso, nonostante un sacco di difficoltà e pericoli che affrontano nella foresta. Mentre noi in Europa per cose da niente diventiamo tristi…».

«Stiamo cercando di aiutarli a capire che la loro diversità culturale è qualcosa di bello – continua fra Paolo Maria -. Abbiamo avviato un festival di cultura indigena dove le persone propongono le loro storie, le loro musiche, le loro tradizioni. Non ad uso e consumo dei turisti, ma per loro, per far capire che sono depositari di un tesoro. Comprese le forme di inculturazione della fede: quando sono arrivato nessun ticuna sapeva pregare il Padre Nostro o l’Ave Maria nella propria lingua. Così abbiamo cominciato a tradurre le preghiere, i canti e oggi le celebrazioni sono diventate una festa».

In questo percorso si inserisce anche la traduzione della Parola di Dio nella lingua locale. Per ora si tratta di una Bibbia illustrata per ragazzi realizzata in Ger­mania dall’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre; ma sul rio Solimões è un dono per tutti. Del resto ci sono voluti dieci anni di lavoro per questa traduzione, realizzata con carta e penna dai maestri locali insieme ai frati cappuccini. Per dare l’idea delle difficoltà dell’impresa: a un certo punto una canoa su cui veniva trasportata la bozza da un villaggio a un altro è affondata durante uno spostamento. Così su quella parte è stato necessario ricominciare il lavoro da capo.

Anche i ticuna sanno ovviamente che a Roma si celebra il Sinodo per l’Amazzonia. E qui è particolarmente sentito il tema delle vocazioni: sono pochi i missionari nell’Alto Solimões. In una diocesi estesa quanto mezza Italia i sacerdoti sono appena quindici. Svolgono il loro ministero insieme alle religiose di diverse congregazioni tra cui le Missionarie dell’Immacolata, le suore del Pime, che dall’anno scorso hanno riaperto una presenza cattolica a Santa Rita do Weil. Ma raggiungere tutti resta un’impresa quasi impossibile: in molti villaggi si riesce a celebrare l’eucaristia appena due o tre volte all’anno.

Perché ci sono così pochi missionari in questa parte dell’Amazzonia? «Non è facile la vita qui, ci vuole una vocazione particolare – risponde fra Paolo Maria -. E poi molti dei giovani frati della regione non sono indios e quindi c’è anche una barriera etnica». Ecco allora la sfida di promuovere le vocazioni e i ministeri locali. «È necessario passare da una Chiesa che visita ad una Chiesa che rimane, accompagna ed è presente attraverso ministri che emergono dai suoi stessi abitanti», si legge nell’Instrumentum Laboris del Sinodo su questo tema. Alla vigilia del Sinodo ha fatto molto discutere l’accenno all’ipotesi di conferire l’ordinazione sacerdotale ad anziani indigeni anche sposati per poter assicurare i sacramenti alle comunità più isolate. Ma è un’affermazione che si fonda su una premessa non meno importante: la necessità di promuovere la crescita di vocazioni autoctone, «indigeni che predicano agli indigeni con una profonda conoscenza della loro cultura e della loro lingua» (n. 129).

Anche su questa sfida a Belém do Solimões si sta provando a percorrere una strada nuova, un cammino sperimentale di formazione al sacerdozio per giovani indios. «Anche tra i ticuna il Signore chiama – racconta fra Braghini -. Ma l’esperienza ci ha insegnato che per un giovane dei villaggi nella foresta il percorso classico di preparazione al sacerdozio nel seminario interdiocesano di Manaus può diventare un ostacolo insormontabile». Cresciuti in una cultura fondata su una tradizione orale, arrivano in una grande città, distante giorni e giorni di barca dai loro villaggi. In un contesto urbano dove l’indio è ancora considerato inferiore, dovrebbero frequentare un percorso di studi lontanissimo dalla loro vita. Molti non ce la fanno e lasciano. Oppure, se vanno avanti, nascondono le proprie radici quasi con vergogna.

Così, d’intesa con il vescovo dom Adolfo Zon Pereira, nell’Alto Solimões è nato questo percorso sperimentale. Due giovani ticuna in cammino verso il sacerdozio – Hercules e Diolindo – vivono con padre Paolo a Belém do Solimões. Compiono la loro formazione dentro la comunità ticuna; e la vivono in maniera itinerante, andando a visitare insieme a padre Braghini i settantadue villaggi affidati alla sua cura pastorale in un territorio dove non c’è neppure una strada e ciascuno viene raggiunto pagaiando con la canoa magari appena due o tre volte all’anno, proprio per la mancanza di sacerdoti. Di qui l’importanza di un cammino vocazionale inculturato: «Uno che arriva da fuori ci mette almeno dieci anni a entrare nel loro mondo – racconta padre Braghini -. Invece un giovane cresciuto qui tante cose le capisce al volo. Ed è bellissimo vedere come questi indios ora pregano per le vocazioni». Senza dimenticare gli altri ministeri. «Credo che la catechesi sia quello centrale – commenta il missionario – nei villaggi indigeni è il catechista ad accompagnare. Ma altrettanto importanti sono la cura e la preghiera con gli ammalati. È un altro ministero che sta sorgendo, molto vicino alle loro tradizioni: quando qualcuno è malato hanno il desiderio di andare là a cantare, pregare, stare vicini. Sono segni che lo Spirito sta già lavorando qui tra noi in Amazzonia».