Venezuela, casa nostra

Venezuela, casa nostra

La vita nei “barrios”, il ritorno a casa, il dolore per quanto sta accadendo a Caracas: la testimonianza della famiglia Di Giovine che in Italia continua l’esperienza vissuta come missionari “fidei donum” in America Latina

 

Crescere come famiglia donando tre anni e mezzo della propria vita a una comunità di una periferia dell’America Latina. E – una volta tornati – accorgersi di avere tra le mani una ricchezza che non è possibile tenere solo per sé. È la storia di Elisabetta ed Eugenio Di Giovine e dei loro figli; la storia di un viaggio di “andata e ritorno” dal Venezuela. Il Paese che è da mesi al centro delle cronache per uno scontro politico apparentemente senza sbocchi.

Sarà Eugenio mercoledì 25 a raccontarla nella serata speciale che in questo Ottobre missionario 2017 il Centro Pime di Milano dedicherà ai laici in missione. Ripercorrendo i passi di una famiglia partita nel 2006 per Guanare, nel nord-ovest del Venezuela come fidei donum dell’Ordine Francescano Secolare e dell’arcidiocesi di Milano. Ma anche tutto quanto è avvenuto dopo il loro ritorno in Italia.

«Il vescovo mons. José Sótero Valero Ruz ci destinò a Sant’Antonio, una periferia rurale di Guanare; un’area dove vivevano 18 mila persone senza ancora una parrocchia – spiega Eugenio -. Una zona povera, punto di arrivo per i campesinos, segnata da problemi sociali anche forti: due o tre morti per droga a settimana, ad esempio. Alcuni frati vi si recavano ma solo ad amministrare i sacramenti. A noi fu chiesto di andare a viverci e diventare come famiglia una presenza pastorale che organizzasse la comunità, in attesa che potesse diventare una parrocchia. Eravamo sposati da appena due anni; Elisabetta era incinta di Sara e Teresa aveva 13 mesi».

Quale è stato l’impatto per una giovane famiglia italiana? «Ci chiedevamo come ci avrebbero accolto – ricorda -; in fondo, che cosa avevamo da offrire in più rispetto alle famiglie che già abitavano lì? Invece, ci siamo trovati accolti in maniera splendida. Ci siamo ritrovati dentro quell’America Latina che in quegli anni si preparava alla Conferenza di Aparecida. Non conoscevamo ancora chi fosse Jorge Mario Bergoglio, ma con la gente di Guanare abbiamo respirato che cosa volessero dire espressioni come “Chiesa in uscita” o “missione permanente”. Più complicato, invece, fu l’impatto con il contesto socio-politico del Venezuela. Eravamo arrivati senza pregiudizi rispetto a Hugo Chávez; ma stando lì ti rendevi subito conto delle contraddizioni di quel modello, quanto stesse creando divisioni nel Paese».

Una parrocchia nuova affidata a una coppia di sposi. «Non è che in America Latina siano più bravi; semplicemente non possono fare altrimenti – continua Eugenio -. Questa povertà, però, ti fa scoprire nuove ricchezze. Una delle prime cose che mi colpì fu ascoltare le meditazioni sulla Parola di Dio di un tagliatore di canna illetterato. Riflessioni profonde, proposte da un uomo che non sapeva neppure scrivere. Eppure esprimeva una sapienza grandissima. Se le avessimo registrate e trascritte oggi avremmo un best-seller della letteratura spirituale».

Una famiglia giovane come riesce a gestisce la sua quotidianità dentro un’esperienza del genere? «Se non ci siamo separati lì… – sorridono Eugenio ed Elisabetta -. A parte gli scherzi: è vero, non è stata un’esperienza semplice, perché la solitudine in certe situazioni si fa sentire. Non sei come il sacerdote che ha comunque momenti di incontro con i confratelli. È una scuola di semplicità che ci ha insegnato molto anche rispetto al valore della testimonianza personale. Per esempio, appena arrivammo il vescovo ci parlò del machismo, di quanto fosse diffusa la violenza contro le donne nelle case. Ci disse che lui, in confessionale, poteva fare tanti discorsi sul perché un uomo non deve picchiare sua moglie; ma aggiunse che la pratica potevano vederla solo da noi. Aveva ragione: in tre anni e mezzo non abbiamo fatto un solo incontro di catechesi sulla pastorale familiare. Però, quando siamo partiti, alcune di queste persone ci hanno lasciato di stucco venendoci a dire: in casa nostra queste cose non succedono più perché abbiamo visto come state insieme voi».

Costruire la comunità con tutti, anche con le famiglie più lontane del barrio: Elisabetta ci andava di persona, in bicicletta con la sua bambina. «I nostri amici vennero a dirci: è troppo pericoloso, non potete andarci da soli – ricordano -. In Venezuela c’era già allora il problema dei sequestri-lampo a scopo di estorsione, erano preoccupati per noi. Però non ci siamo fermati, sentivamo di essere lì anche per quelle famiglie. E se non ci è successo mai nulla è perché questa gente ci ha custoditi: con i loro occhi sono diventati il Gps più efficace».

Occhi utili anche per osservare la realtà insieme: «Al primo Consiglio pastorale ci siamo presentati con una lista di 21 bisogni. La loro lista, invece, ne comprendeva appena due: bambini non scolarizzati e cinquantenni in grave situazione di difficoltà. Potevamo andare avanti a pensare che loro non sanno leggere il proprio contesto oppure investire sulle urgenze che avevano individuato. Abbiamo scelto la seconda strada. Col risultato che quando siamo andati via quei due progetti non sono finiti; ancora oggi vanno avanti e hanno anche allargato il loro orizzonte al livello diocesano».

«Un’altra cosa che ci ha aiutato molto – continua la famiglia Di Giovine – è stata una frase che il cardinale Dionigi Tettamanzi, allora arcivescovo di Milano, ci aveva detto prima di partire per la missione: “Andate sempre con i vostri figli e mai nonostante loro”. Aveva ragione. E fu anche il motivo che, al momento della verifica dopo il primo periodo di tre anni, ci convinse a scegliere di rientrare in Italia. Un prete diocesano stava arrivando per risiedere nella parrocchia, l’obiettivo era stato raggiunto. E per Teresa si avvicinava l’inizio della scuola elementare: non sarebbe stato facile per lei in un contesto come quello».

Di nuovo in Italia, ma comunque con il desiderio di restituire quanto ricevuto in Venezuela: «Un’altra raccomandazione del cardinale Tettamanzi era stata quella di preparare bene il ritorno. “Quanto partite vi danno il mandato, quando tornate invece…”. Così – spiegano Eugenio ed Elisabetta – ci siamo confrontati con altre famiglie che, come noi, erano state impegnate in un servizio ecclesiale ed erano rientrate più o meno nello stesso periodo. E con la diocesi è nata l’idea di una presenza pastorale in alcune realtà del nostro territorio; per noi questo percorso si è concretizzato a San Giuseppe, una chiesa sussidiaria di una parrocchia di Bollate, hinterland milanese, in un quartiere dove vivono ottomila persone. Presenza con un’attenzione particolare alle famiglie e ai giovani adulti, ma sempre in una prospettiva missionaria».

Un cammino che in questi anni si è arricchito di altri tre bambini: Giovanni Paolo, Pietro e la piccola Maria. Ma anche della presenza a Roma di un Papa pure lui venuto dalla “fine del mondo”: «Adesso mettiamo a frutto l’“ermeneutica facilitata di Papa Francesco” – raccontano -. Aspetti del suo magistero che magari anche qualche prete qui fa un po’ fatica a capire, per noi si traducono in volti e storie concrete. “Ma qui siamo in Italia, è diverso!”. Allora proviamo a spiegare che – fuori dai soliti ambienti – anche a Bollate le cose non sono poi così diverse…».

Dall’Italia resta comunque lo sguardo anche al Venezuela e al dramma che sta vivendo nelle sue piazze. «Di fronte alle immagini degli scontri provo tre sentimenti – commenta Eugenio Di Giovine -. Il primo, il più immediato, è dirmi: “Lo sapevo!”. L’avevamo capito tutti che questo “socialismo del XXI secolo” era una scatola vuota e passato il carisma di Chávez sarebbero rimasti solo gli opportunisti, quelli che avevano approfittato della situazione. Subito dopo però penso: “Che peccato!”. Perché il Venezuela è un Paese ricco, avrebbero tutto: il petrolio, l’agricoltura, gli allevamenti di bovini… Solo che da Caracas, per diventare realmente ricchezza, ogni cosa deve sempre finire altrove, oltre la frontiera in Colombia o direttamente negli Stati Uniti. E allora il terzo mio sentimento è una speranza: che per quel Paese si apra una strada davvero nuova. Un percorso che dopo Maduro lo porti sì a voltare pagina, ma senza ritornare sotto la longa manus di chi queste ricchezze le ha solo sfruttate. Solo così il Venezuela potrà uscire realmente dalla sua crisi».