Più forti della violenza

Più forti della violenza

Padre Channan, domenicano, in prima linea nel dialogo con l’islam: «Le chiese restano piene, segno di fede profonda»

 

Andare avanti con il dialogo anche nella città sfigurata dalla violenza. Raccontando al mondo che quello non è l’unico volto di Lahore e che anche tra i giovani musulmani pachistani c’è tanta voglia di pace. È la frontiera quotidiana che, nella grande città del Punjab, vive il domenicano James Channan, figura molto conosciuta nel mondo del dialogo interreligioso. Classe 1952, da più di trent’anni padre Channan è un punto di riferimento per il dialogo tra cristiani e musulmani in Pakistan. E a Lahore oggi è anche l’anima del Centro per la pace aperto dai domenicani per scommettere su un salto di qualità nell’incontro proprio là dove il terrorismo jihadista colpisce in maniera più dura. Proprio come successo nella Pasqua dell’anno scorso.

«Ricordo bene quel 27 marzo 2016 – racconta padre James -. Centinaia di famiglie – cristiane ma anche musulmane – erano andate al Gulshan-e-Iqbal; erano lì perché è un parco molto popolare per lo svago, specialmente per i bambini. È stato orribile vederle colpite in un momento di festa. Sono rimasto in contatto costante con le famiglie che hanno perso un proprio caro in quella strage. Abbiamo offerto loro sostegno, terapia psicologica, consulenza e assistenza medica. Decine tuttora hanno bisogno di cure sanitarie e di aiuto».

Padre Channan che Pasqua sarà quest’anno a Lahore?

«Certamente ancora una Pasqua vissuta con un senso di insicurezza. Ma vedo anche che, nonostante questi attacchi e persecuzioni, la fede dei cristiani di Lahore è molto forte. Il numero delle persone che vengono in chiesa non è diminuito. Ed è un’esperienza spiritualmente molto forte vedere le nostre chiese ugualmente piene di fedeli: è segno di una fede profonda in Gesù Cristo, il Risorto. Una fede non a cuor leggero: immaginate quanto possa essere doloroso vivere la Quaresima e la Pasqua per queste famiglie e per tutti quanti hanno perso i loro cari in un attacco così barbaro. Spero e prego che non accada più nulla del genere e che le celebrazioni pasquali possano avere luogo in maniera pacifica».

Perché proprio la città di Lahore finisce così spesso nel mirino dei jihadisti?

«È una città molto bella e ricca di storia, è il cuore politico e culturale del Punjab. Ed è ormai dall’inizio dell’ondata terroristica – cominciata dopo il terribile attentato dell’11 settembre 2011 e l’alleanza tra il governo pachistano e gli Stati Uniti – che Lahore periodicamente viene colpita. Pensavamo che l’esercito fosse riuscito a riportare la situazione sotto controllo; adesso invece vediamo che le cellule dormienti sono tornate in attività ed è una disgrazia. Perché ora? L’obiettivo è certamente indebolire il governo. Ma c’è anche chi dice che l’accanimento proprio su Lahore sia legato alla scelta di tenere qui all’iniziio di marzo la finale della Pakistan Super League di cricket: sarebbe un modo per cercare risonanza internazionale».

Chi sono questi gruppi radicali? E la loro popolarità è in crescita tra i giovani pachistani?

«Vi sono diversi gruppi di militanti in Pakistan: Tehreek-e-Taliban Pakistan, Jaish-e-Muhammad, Lashkar-e-Taiba, Sipa-e-Sahaba, Sipa-e-Muhammad… Sono stati quasi tutti dichiarati fuori legge, ma continuano a portare avanti le loro attività. Non credo, però, che il radicalismo stia diventando più forte tra i giovani. La maggior parte è pacifica, ama l’istruzione e lo sport. Vogliono imparare e costruirsi una vita migliore, vogliono anche servire il proprio Paese, molti hanno anche ottenuto riconoscimenti internazionali, borse di studio all’estero. È vero, però, che ci sono scuole religiose gestite da leader radicali che stanno provocando grossi problemi. Dal punto di vista numerico non sono molte, ma è urgente che il governo e l’esercito riescano a metterle sotto controllo».

La vostra risposta, invece, è il Centro per la pace…

«È stato fondato dalla vice-provincia domenicana del Pakistan e inaugurato nel 2010 dal cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. È nato per rispondere all’urgente bisogno di promuovere il dialogo, soprattutto quello tra cristiani e musulmani qui. Organizziamo durante tutto l’anno conferenze, workshop, seminari, pubblichiamo anche un trimestrale. Organizziamo programmi in occasione delle Giornate internazionali delle Nazioni Unite come la Giornata della donna o la Giornata internazionale della pace; celebriamo le feste cristiane e musulmane, come il Natale e l’Eid al Fitr, oltre a promuovere incontri di approfondimento della fede rivolti specificamente ai cristiani. È un centro molto conosciuto a Lahore: è diventato un simbolo. Nei nostri programmi, studiosi cristiani e musulmani, attivisti per i diritti umani, promotori del dialogo interreligioso vengono qui e condividono la ricchezza delle proprie esperienze. Stiamo facendo del nostro meglio per promuovere rapporti cordiali, rispetto e tolleranza tra cristiani e musulmani in Pakistan. Ma c’è un gran bisogno di far avanzare ulteriormente questi programmi».

Come avviene concretamente il dialogo tra cristiani e musulmani in un posto come Lahore, così segnato dalla violenza?

«C’è soprattutto il dialogo della vita e delle esperienze religiose, che avviene nei gesti più quotidiani. Ma al nostro centro portiamo avanti anche il dialogo di natura più strettamente teologica. Molti studiosi, tanti donne e gruppi di giovani vengono qui e beneficiano delle nostre strutture e dei nostri programmi. E sono convinto che queste attività non potranno non portare a una cambiamento nella nostra società».

Anche tra musulmani, però, vi sono violenze gravissime, come ha ricordato nelle scorse settimane la strage nel santuario sufi di Sehwan Sharif.

«Sì, c’è tanto bisogno di dialogo anche tra gli stessi musulmani. Hanno una lunga storia di divisioni e disaccordi tra di loro, ci sono state anche tante guerre di questo tipo. Oggi molti attentati dei gruppi radicali sono contro altri musulmani: contro i santuari dei sufi ma anche contro le comunità sciite. Del resto sono le stesse divisioni che nel mondo di oggi osserviamo tra Paesi islamici appartenenti a confessioni diverse. Si considerano l’un l’altro nemici. Il dialogo e la riconciliazione tra loro sono un passo essenziale per la pace».

Da quasi sette anni Asia Bibi è in carcere con la falsa accusa di blasfemia e una condanna a morte che pende sul suo capo. Il suo è solo il caso più noto prodotto da una legislazione contestata dalla Chiesa pachistana perché aperta a ogni tipo di abuso. Come uscire da questa situazione?

«Purtroppo oggi non vedo all’orizzonte la possibilità che la legge anti-blasfemia venga cancellata. Tuttavia un primo miglioramento potrebbe arrivare se fosse almeno modificato il processo di registrazione di questi casi alle stazioni di polizia. Già far condurre l’indagine preliminare a un graduato delle forze di sicurezza in molte situazioni eviterebbe la registrazione di casi contro persone del tutto innocenti. Va anche aggiunto che – se l’abuso della legge antiblasfemia colpisce tutti – è comunque vero che i cristiani sono le prime vittime, perché quando un cristiano è accusato l’intera comunità dove vive finisce nel mirino. Più di una volta le case di tutti sono state bruciate e ridotte in cenere; e spesso non viene fatta nessuna giustizia contro questi gravi atti di vandalismo, che causano grave senso di insicurezza e paura tra i cristiani. Quanto ad Asia Bibi, spero che finalmente sia fatta giustizia. Ho molta fiducia che la Corte Suprema del Pakistan, davanti al la quale il caso attualmente si trova, chiuderà questa vicenda».

Che cosa può fare l’Occidente per i cristiani di Lahore?

«Sarebbe opportuno che i Paesi occidentali aiutassero di più i cristiani perseguitati in Pakistan: i governi occidentali dovrebbero dare una possibilità concreta a chi vuole fuggire a causa delle persecuzioni. Ma c’è anche un’altra cosa importante che i cristiani in Occidente non devono smettere di fare: credere nel dialogo tra cristiani e musulmani. Abbiamo molto bisogno di gruppi e organizzazioni che sostengano sia spiritualmente che finanziariamente il dialogo interreligioso, i programmi per la pace e le attività condotte in questo Paese. Sono questi programmi e pubblicazioni rivolti ai leader religiosi e ai giovani l’unica strada per portare un cambiamento in positivo nella nostra società. Stiamo camminando in questa direzione ma molto attende ancora di essere fatto»