A Kabul non c’è pace e il futuro fa paura

A Kabul non c’è pace e il futuro fa paura

L’11 settembre gli ultimi soldati americani lasceranno il Paese, ma violenza e povertà sono in crescita. La testimonianza di due religiose che gestiscono un Centro per bimbi con disabilità nella città martoriata

«Questo è un Paese ferito, la violenza qui è la regola e la vita non vale niente. Il sangue scorre ancora per le strade come se fosse acqua…». Sono drammatiche le parole di suor Shahnaz Bhatti, anche se lei le pronuncia senza enfasi, come se descrivesse una situazione ormai tanto scontata da non fare più notizia.
Eppure, la sua non è certo rassegnazione, visto che proprio per cambiare – almeno un pochino – la vita degli afghani più poveri e vulnerabili questa sorridente 45enne ha lasciato il suo Pakistan per Kabul dove, dopo vent’anni esatti dall’inizio della missione a guida americana che avrebbe dovuto portare pace e democrazia, oggi c’è aria di smobilitazione.
L’11 settembre – data dal richiamo simbolico che però in mezzo al caos afghano ha ben poco valore – gli ultimi soldati statunitensi lasceranno definitivamente il Paese. L’accordo firmato a Doha nel febbraio dell’anno scorso tra Usa e talebani prevedeva il progressivo ritiro delle forze militari straniere in cambio di uno stop agli attentati terroristici, e invece sono quotidiane le notizie di bombe, agguati, omicidi mirati che colpiscono funzionari governativi, giornalisti, avvocati, ma anche operatori sanitari, studenti e, in particolare, studentesse. Spesso si tratta di appartenenti alla minoranza hazara, sciita, da sempre nel mirino dei talebani, pashtun sunniti. Secondo il rapporto annuale della Commissione afghana per i diritti umani, l’anno scorso sono stati tremila i civili uccisi da attacchi terroristici.
«Oltre alla violenza, a colpire il popolo è la povertà diffusa: la disoccupazione è alle stelle e tanta gente, per vivere, è obbligata a mendicare», racconta suor Shahnaz. «Nel nostro quartiere vediamo spesso donne che aspettano di fianco alle botteghe per ricevere un pezzo di pane da portare a casa ai propri figli. Anche i nostri ragazzi vengono tutti da famiglie bisognose».
La suora della Carità di Santa Giovanna Antida fa riferimento agli allievi del Centro diurno per bimbi disabili mentali non gravi nato nel quartiere Taimani della capitale grazie all’impegno dell’associazione Pro Bambini di Kabul, un

a realtà intercongregazionale (che accoglie, cioè, sorelle di diversi Ordini) nata su iniziativa del sacerdote guanelliano padre Giancarlo Pravettoni in risposta all’appello a «salvare i bambini afghani» lanciato da Giovanni Paolo II nel discorso di Natale del 2001.
Si tratta dell’unica scuola di questo tipo in tutto l’Afghanistan. Qui la religiosa pachistana del Punjab, che ha alle spalle anche un’esperienza missionaria in Etiopia, opera da quasi due anni insieme a suor Teresia Crasta, indiana dell’Istituto di Maria Bambina arrivata a Kabul a fine 2018. «Ho risposto all’appello della nostra superiora generale che cercava una volontaria per venire a lavorare in questa struttura – racconta la cinquantenne del Kerala -. Io sono diplomata in Educazione di persone con bisogni speciali e per quindici anni sono stata impegnata negli ospedali insieme ai pazienti con ritardo mentale: ho pensato che fosse il posto giusto per me».

Oggi suor Teresia è la preside del Centro Pbk (Pro Bambini di Kabul, appunto), che accoglie cinquanta ragazzi tra i sei e i dodici anni con ritardo nello sviluppo, tra cui alcuni affetti dalla sindrome di Down. «Il nostro obiettivo è far crescere le loro potenzialità e permetterne, quando possibile, l’inclusione nel sistema educativo», spiega. «Si tratta di piccoli appartenenti a famiglie molto povere, che non hanno gli strumenti per pren­dersi cura di loro. Sono i più vul­nerabili tra i vulnerabili: spesso in Afgha­nistan i bambini sono traumatizzati già nel grembo materno e non è raro che nascano con problemi, malformazioni o qualche forma di disabilità».
Arrivano al mattino presto, molti di loro accompagnati dal pulmino della struttura, che fa la spola tra i quartieri vicini – Chalmitra, Kolola Pushta, Khair Khana… – sfidando il pericolo quotidiano di muoversi in queste strade «dove non passa giorno senza un’esplosione». Spiega suor Shahnaz: «Nonostante i rischi, abbiamo scelto di non stabilirci nella più sicura green zone, quella delle ambasciate e dei palazzi governativi, perché volevamo vivere in mezzo alla gente comune». Una decisione coraggiosa condivisa dagli altri, pochissimi, religiosi presenti in città: a Taimani stanno anche alcune missionarie della Carità di Madre Teresa, che gestiscono un orfanotrofio, e i gesuiti indiani che operano per l’assistenza e la formazione dei rifugiati.
Se al Centro Pbk le suore vivono sole – ma una terza è in arrivo a breve -, le loro giornate le condividono con gli insegnanti e gli operatori della scuola, che sono tutti afghani. «I bimbi arrivano di prima mattina e, dopo un po’ di gioco libero e un momento ad hoc per sviluppare la loro creatività, segue un intenso programma di lezioni – lingua dari, matematica, conoscenza generale – e di attività, dalla musica all’esercizio fisico», racconta suor Teresia. La scuola, che è gratuita per tutti e continua fino al primo pomeriggio, include anche una merenda e il pranzo per gli allievi, a cui così si garantisce un’alimentazione adeguata.

«La pandemia di Coronavirus ci ha imposto alcuni cambiamenti organizzativi ma, anche se nei mesi di lockdown abbiamo dovuto sospendere le lezioni, non abbiamo mai smesso di assistere i nostri ragazzi e i loro genitori». Anzi, di fronte alle aumentate necessità della gente, le suore hanno dovuto inventarsi nuovi modi per dare una mano. «Già in tempi normali offriamo supporto per il cibo, i vestiti, le medicine o il materiale scolastico, non solo alle famiglie degli studenti ma anche a diversi nuclei bisognosi del quartiere», premette suor Shahnaz. «In questi mesi poi abbiamo organizzato semplici programmi per 156 piccoli, con giochi, rinfreschi e la distribuzione di pacchi di aiuti, quaderni e materiale igienico». Se per anni, tuttavia, questi interventi erano sostenuti dalle donazioni ricevute dalla Nato e dalle organizzazioni internazionali, ora la situazione sta rapidamente cambiando in peggio: «Qui tutti stanno partendo e a noi ormai rimangono solo i fondi dell’associazione Pro Bam­bini di Kabul».
In compenso, mentre scadono i vent’anni dall’arrivo degli americani sul suolo afghano, le suore non ravvisano un miglioramento nella vita della gente: «Il lavoro scarseggia e anche chi ce l’ha non guadagna abbastanza per vivere dignitosamente. Gli affitti sono molto alti e i tantissimi afghani che vengono a Kabul in cerca di un impiego non possono permettersi di pagarli. Per quanto riguarda la condizione femminile, è vero che oggi le ragazze possono andare a scuola, ma non nelle zone controllate dai talebani, senza contare che anche qui in città negli ultimi tempi le studentesse sono diventate un bersaglio privilegiato degli attentati».
Nonostante le difficoltà, tuttavia, «le donne già sono e vogliono essere sempre di più parte attiva della società, in particolare le più giovani, visto che quelle sposate generalmente devono attenersi a regole tradizionali molto rigorose». Suor Shahnaz cita l’esempio di Samia, «la ragazza che ci aiuta a studiare la lingua dari: mentre frequenta la facoltà di Ammini­stra­zione e gestione all’università, lavora come impiegata in una scuola ed è lei a guadagnare il pane per la sua famiglia. È una studentessa brillante e potrebbe dare una grossa mano alla crescita del suo Paese, così come tanti giovani afghani pieni di buona volontà e risorse».

Per alcuni di loro, Pro Bambi­ni di Kabul ha avviato un programma di borse di studio. Ma lo scenario politico, dopo il ritiro definitivo degli americani, si preannuncia fosco. L’ipotesi di un governo guidato dai talebani spaventa chiunque in questi anni abbia lavorato per una società più liberale e democratica. E l’alternativa, in mancanza di un’improbabile spartizione consensuale del potere tra le fazioni in campo, è il riaccendersi del conflitto civile.
«Siamo molto preoccupate per il prossimo futuro», ammettono le due religiose. Alle quali, in questa situazione, non resta che affidarsi alla Provvidenza. Ma come è possibile vivere la fede cristiana in un Paese al 99% musulmano? «Facciamo come diceva san Francesco: predichiamo il Vangelo senza usare le parole. Qui in casa abbiamo una piccola cappella dove preghiamo quotidianamente, mentre per la Messa dobbiamo andare all’ambasciata italiana, di solito una volta alla settimana. Fuori, invece, non possiamo professare la fede, anche se tutti sanno che siamo cristiane, ci rispettano e apprezzano il modo in cui accogliamo chiunque abbia bisogno».
Discriminazioni, le suore non ne hanno mai sperimentate: «Al contrario, nei nostri confronti c’è molta gratitudine. I genitori dei nostri allievi vorrebbero che continuassimo a occuparci dei loro figli più a lungo dei quattro anni del percorso di formazione standard, anche perché, una volta fuori di qui, i bambini che non sono in grado di inserirsi a scuola rischiano di tornare per la strada, o nascosti in casa visto lo stigma che ancora circonda la disabilità».
Per questo dal nuovo anno scolastico suor Shahnaz e suor Teresia, insieme alla sorella che le raggiungerà, puntano ad alzare a sessanta il numero dei piccoli ospiti del Centro. Nonostan­te gli spazi ridotti e l’incertezza sulla situazione politica. «Viviamo giorno per giorno, serenamente. Le nostre famiglie sono preoccupate per noi: ogni volta che vedono in tv l’immagine di qualche attentato temono per la nostra incolumità. Ma noi dormiamo tranquille, qui abbiamo molti amici e per il resto ci affidiamo a Dio».


Chiesa silenziosa
In Afghanistan la presenza cattolica fu ammessa a inizio Novecento come assistenza spirituale nell’ambasciata italiana a Kabul, con il primo sacerdote barnabita. Nel 2002 Giovanni Paolo II creò la “Missio sui iuris”, oggi affidata a padre Giovanni Scalese. Nella capitale afghana sono presenti anche le Missionarie della Carità e i gesuiti indiani del Jesuit Refugee Service.


Usa contro talebani vent’anni di guerra

9 settembre 2001 – Il leader della resistenza afghana anti-talebani, Ahmad Shah Massoud, viene ucciso in un attentato suicida
11 settembre 2001 – Attacco alle Torri Gemelle a New York
7 ottobre 2001 – Parte l’operazione Enduring Freedom. Usa e Regno Unito avviano una campagna di bombardamenti aerei
5 dicembre 2001 – L’Onu autorizza la creazione dell’International Security Assistance Force (Isaf), per mantenere la sicurezza
3-17 dicembre 2001 – Battaglia sui monti di Tora Bora: Osama bin Laden fugge in Pakistan
22 dicembre 2001 – Alla Conferenza internazionale sull’Afghanistan in Germania, Hamid Karzai è scelto come capo dell’Amministrazione provvisoria. A giugno 2002 una Loya Jirga (Grande assemblea) d’emergenza lo nomina presidente ad interim
1° maggio 2003 – Il segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld dichiara la “fine dei combattimenti”
11 agosto 2003 – La Nato assume la responsabilità della missione Isaf
Dicembre 2003-gennaio 2004 – La Loya Jirga approva una nuova Costituzione, ratificata il 26 gennaio
9 ottobre 2004 – Karzai vince le elezioni e diventa presidente della Repubblica. Nel 2009 verrà riconfermato
Estate 2006 – Inizia un’escalation da parte dei talebani all’insegna di attacchi suicidi e attentati contro i civili (almeno 669 vittime civili nel 2006 secondo HRW). L’ondata di violenza continua negli anni successivi
Maggio 2009 – Il nuovo capo delle operazioni militari Stanley McChrystal teorizza la necessità di ridurre i “danni collaterali”, cioè le vittime civili
Dicembre 2009 – Il nuovo presidente Usa Barack Obama annuncia l’invio di altri 30 mila soldati in Afghanistan
1° maggio 2011 – In un raid ad Abbottabad, in Pakistan, truppe speciali Usa uccidono Osama bin Laden
Dicembre 2011 – Conferenza di Bonn per avviare il ritiro delle truppe internazionali e la ricostruzione
Giugno 2013 – L’Isaf trasferisce la gestione della sicurezza alle forze afghane
21 dicembre 2014 – Ashraf Ghani e il rivale Abdullah Abdullah si accordano per dividere i ruoli nell’amministrazione
28 dicembre 2014 – L’Isaf lascia il posto a Resolute Support, che assiste le forze afghane
Agosto 2017 – Il nuovo presidente Usa Trump annuncia l’intenzione di ritirare le truppe
2018 – Talebani e delegati Usa avviano trattative di pace a Doha, in Qatar
29 febbraio 2020 – Firma dell’accordo Usa-talebani a Doha, che prevede il definitivo ritiro di tutte le truppe Nato nel 2021