AL DI LA’ DEL MEKONG
Cara e unica Pheng

Cara e unica Pheng

È affascinante lasciare co-esistere, co-essere due tradizioni religiose diverse pur con l’acribia di percepirne e gustarne le differenze. Per abbracciare, alla fine, quella che più intensamente risponde non a un capriccio, ma alla sete del cuore


«Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre
… mi hai fatto come un prodigio» Salmo 139

Pheng, cambogiana e cristiana, è spirata alcuni giorni fa all’età di 64 anni. Quando si è trattato di valutare se celebrare le esequie secondo il rito cattolico o secondo il rito buddista, ha prevalso la seconda opzione perché la maggioranza dei suoi cari, figli e parenti, è rimasta buddista. Da parte nostra, ci siamo ritagliati degli spazi di preghiera nel rispetto della fede cattolica di Pheng e tutto si è svolto con correttezza e reciproco riconoscimento. I parenti sono stati gentili e hanno accettato che si celebrasse l’Eucarestia nella casa di Pheng.

Quando siamo arrivati, gli anziani provenienti dalla vicina pagoda avevano già appeso al muro un drappo con la figura del Budda, l’Illuminato, come si è soliti fare nella casa del defunto. I microfoni diffondevano per almeno duecento metri di raggio le nenie funebri, molto coinvolgenti. Sono nenie che non si devono capire – nessuno infatti sarebbe in grado di seguire l’incedere delle parole ripetute a memoria – ma si devono piuttosto sentire. È questo sentire che crea l’atmosfera del commiato per una vita che si chiude e che attende un’altra vita, secondo il suo karma.

Quanto a noi, su un’altra parete abbiamo appeso un’immagine di grandezza simile alla loro, ma del Cristo, crocifisso e risorto. Abbiamo cantato, celebrato, letto la Scrittura, commentato il brano di Vangelo che racconta di Lazzaro e di Gesù che di fronte alla morte dell’amico «scoppiò in pianto» (Gv 11,35). In questi casi, la tradizione e la consuetudine giocano un ruolo decisivo. Il manipolo di cattolici che in genere si riunisce in circostanze simili percepisce spesso imbarazzo e sente che le due tradizioni sono diverse. A questo si aggiunge il potere dei numeri. I presenti sono sempre in maggioranza buddisti e questo concorre a stabilire la verità delle cose a favore dell’Illuminato. Eppure, di fronte alla morte, è ugualmente importante dare testimonianza di una visione diversa che poggia sulla rivelazione di Gesù Cristo non perché sia imposta come alternativa, ma perché sia offerta come possibilità.

È affascinante lasciare co-esistere, co-essere le due tradizioni pur con l’acribia di percepirne e gustarne le differenze. Per abbracciare, alla fine, quella che più intensamente risponde non a un capriccio, ma alla sete del cuore. Dice bene don Giussani, che la fede «è qualcosa… che avviene in me, che interessa la mia coscienza» e per questo è necessaria «un’indagine esistenziale» (1), accostando quella fede con il «complesso di evidenze ed esigenze originali» (2) che costituiscono la struttura dell’essere umano, la sua «esperienza elementare», il suo «cuore».

All’Eucarestia era presente anche Pheng, nelle sue spoglie mortali, distesa, coperta solo da lenzuola pesanti. Volevo che ciascuno, tanto più i figli, il marito, si accomiatassero riconoscendo un’ultima volta l’unicità della loro mamma e moglie. Ché non fosse considerata una vita tra le tante, pronta per una prossima reincarnazione in sembianze differenti. Volevo che quel volto, il volto di Pheng fosse riconosciuto come unico, irripetibile, mai visto prima su questa terra e mai più dopo. E che gli dicessero “grazie” per un’ultima volta. Ho quindi indugiato necessariamente sulla fede nella creazione. Che nel Buddismo è considerata un errore perché quanto esiste è il frutto di «una degradazione progressiva degli esseri, causata dal desiderio» e «le Scritture canoniche… negano che vi sia creazione o atto creatore da parte di qualcuno» (3). Ma non importa, sono andato avanti.

Perché il valore di ogni creatura coincide proprio con quella “degradazione”, cioè con quelle determinazioni e limiti che, grazie alla fede nella creazione, interpretiamo come segni della sua unicità, della sua stessa positività e bontà (4). Della sua figliolanza divina. Il limite, la determinazione, il peso, l’altezza, ecc., non frenano lo slancio, anzi diventano il segno più eloquente dell’unicità e irripetibilità di ogni creatura, così come Dio l’ha voluta. «Dio vide quanto aveva fatto… era cosa molto buona» (Gen 1,31). Desideravo con tutto il cuore che Pheng se ne andasse sapendo di essere stata una mamma, una moglie, un’amica, una cristiana unica! Pur drammaticamente imperfetta.

Ebbene, sono prospettive del tutto inedite per la fede buddhista.

C. S. Lewis commentando l’affermazione “Dio è amore” scrive che «questa, per inciso, è forse la differenza principale tra la religione cristiana e tutte le altre: nel cristianesimo Dio non è una cosa e nemmeno una persona statica, ma un’attività dinamica, pulsante, una vita, quasi una sorta di dramma… una sorta di danza» (5). La creazione non è quindi degradazione, ma danza di Dio che crea per amore, ciascuno nella propria irripetibile unicità. Una fede così appaga. È «la suprema razionalità» – continua Giussani – perché «genera un’esperienza e una corrispondenza all’umano impensabili» (6).

Riposa in pace cara e unica Pheng!

 

  1. L. Giussani, Il senso religioso, Milano 1986, 14.
  2. Ivi, 16.
  3. M. Zago, Buddhismo e Cristianesimo in dialogo. Situazione, rapporti, convergenze, Roma 1985, 278.
  4. Cfr. il breve quanto intrigante saggio di S. Petrosino, Dove abita l’infinito, Milano 2020.
  5. C. S. Lewis, Il cristianesimo così com’è, in http://www.gliscritti.it/preg_lett/antologia/la_generazione_eterna.htm
  6. L. Giussani, Il senso religioso, 30.