AL DI LA’ DEL MEKONG
«Full of promise»: Sokcie, Mary Ann e Avicii

«Full of promise»: Sokcie, Mary Ann e Avicii

Non nascondo che nell’incontro con Sokcie come con tanti altri giovani cambogiani sento una sorta di chiamata a portare a compimento non solo la mia, ma anche la loro vita. Entrambe ancora incompiute, eppure «full of promise»

 

«…più in alto della realtà
si trova la possibilità»

Qualche tempo fa ho incontrato Sokcie, studente dell’ultimo anno di ingegneria civile presso il prestigioso Istituto di Tecnologia di Phnom Penh. Lo avevamo conosciuto per caso circa otto anni fa, percorrendo una strada sterrata che da Prey Veng, capoluogo della omonima provincia cambogiana, porta a al suo villaggio, piuttosto remoto, non tanto per la distanza da percorrere quanto per le condizioni dell’unica strada necessaria per arrivarci.

Sokcie lavorava per conto di una zia e gestiva una barca che consentiva ai viandanti di attraversare un ampio bacino d’acqua dentro il quale quella strada moriva e alcune decine di metri più a ovest, riemergeva. Spesso infatti le ingenti pioggie e la morfologia del terreno creano ampie pozzanghere d’acqua, talmente vaste che disfano strade e possono essere attraversate solo da una barca che traghetta persone biciclette e motorini da un estremo all’altro, fino al punto in cui la strada riaffiora dall’abbondante coperta d’acqua. Ebbene, Sokcie si occupava del traghetto e gestiva l’andirivieni dei viaggiatori. Aspettava il loro arrivo, completava il carico e passava all’altra riva. Senza fretta, senza chiasso.

Fu in quell’attesa che attaccammo bottone fino a scoprire che viveva con la nonna e non con i genitori e che, abbandonati gli studi, avrebbe voluto partire per la Thailandia alla ricerca di un futuro più sicuro. Aveva appena terminato la scuola media, l’orizzonte sarebbe stato quel laghetto e quei viaggiatori impazienti, senza alcuna possibilità di accedere a studi di livello superiore. Meditava dunque di lasciare quello stagno circoscritto, visibile a colpo d’occhio, per andare a navigare l’immenso e pericoloso golfo di Thailandia dove molti giovani cambogiani vanno a fare pesca d’alto mare. E finiscono male. Fu invece l’incontro con noi a dare alla sua barca una direzione nuova, imprevista, piovuta dal cielo come tutta quell’acqua che ostacolava il percorso dei viandanti. Grazie ad un’attesa più lunga del previsto e ad una chiacchierata forzata dalle circostanze, un cambio di rotta avrebbe portato Sokcie fino all’Istituto di Tecnologia di Phnom Penh: «…più in alto della realtà si trova la possibilità».[1] Da allora non solo ha terminato la scuola superiore, ma sta per terminare il corso di laurea in Ingegneria civile. Nel frattempo ha chiesto e ricevuto il battesimo perché la svolta impressa alla sua vita – racconta ora – «è davvero piovuta dal cielo!».

Quell’espressione – «…più in alto della realtà si trova la possibilità» – rubata ad Heidegger potrebbe sembrare eccessiva, retorica. Al filosofo tedesco serve però per dimostrare che l’esistenza dell’uomo, il suo proprio modo d’essere, non è deciso da un destino previo, metafisico, già scritto, ma accade come evento, come cammino. La storia, la vita dell’uomo è un cantiere aperto che non dipende solo dall’età ma dall’ampiezza dello sguardo. Si deve dunque – scrive Flanery O’Connor – «imparare a leggere la vita in una maniera che comprenda il maggior numero di possibilità».[2] Altrove, sempre la scrittrice americana, buona compagna di viaggio, nel descrivere i tratti di Mary Ann, una bambina gravemente sfigurata da un tumore che la porterà alla morte a soli nove anni, parla di quella vita e di quel volto non come una sciagura, una condanna già scritta, ma come qualcosa di ancora «incompiuto» (unfinished), come un cantiere ancora aperto, un processo creativo non ancora terminanto e nondimeno «full of promise»,[3] pieno di promessa, anche se dietro fragilissime sembianze di una vita prossima alla fine. «La diminuzione di Mary Ann – scrive la O’Connor – era estrema, ma lei era preparata, grazie ad una intelligenza e a un’educazione appropriata, non solo a sopportarla, ma a costruire su di essa». Il racconto della sua vita era incompiuto, così come il suo volto era sfigurato, unfinished. Eppure «entrambi – il racconto e il volto – sembravano lasciati, come la creazione al settimo giorno, perché altri li finissero».[4]

Leggere la vita in questo modo significa riscattarne il valore, renderle giustizia, darle speranza. Perché è Dio stesso che vi lavora, «la aiuta, la solleva, le dà l’impulso che la spinge, il bisogno che l’attrae, lo sviluppo che la trasforma» – scrive Teilhard de Chardin.

Non nascondo che nell’incontro con Sokcie come con tanti altri giovani cambogiani sento una sorta di chiamata a portare a compimento non solo la mia, ma anche la loro vita. Entrambe ancora incompiute, eppure «full of promise»! Perché non è solo sulla base del passato o del presente che si può costruire o sognare una vita diversa, ma anche e sopratutto sulla base del futuro. Di ciò che ora sembra impossibile, ma alcuni sanno intravedere e suggerirci. Buoni compagni di viaggio che si prendono cura di noi e poi scompaiono senza legarci. Sempre Heidegger precisa che il particolare modo d’essere dell’uomo si coglie e si manifesta nell’«aver cura» delle persone e nel «prendersi cura» delle cose. Anzi – continua il filosofo – quel modo d’essere, quell’esserci, è in se stesso «cura».

Mentre scrivo sto ascoltando l’audio di un evento organizzato giorni fa per commemorare il genio, la vita e la morte del DJ svedese Avicii, Tim Bergling (1989 – 2018). «We hope – dice il presentatore parlando all’anima del defunto – you are watching us from this sky full of stars». Vorrei che questa «cura» possa estendersi ben oltre la filosofia di Heidegger, il politicamente corretto dei presentatori, o l’attuale strapotere del mercato, quello finanziario, quello discografico, quello automobilistico… che come lo stagno di Sokcie sembra essere l’unica realtà, l’unica verità pronunciata sulle nostre vite. Lascio quel mercato che Avicii ha usato e dal quale si è lasciato soffocare, e penso piuttosto a Tim, anche lui «unfinished», eppure «full of promise», pieno di una promessa che ora chiedo Dio di mantenere. «Wake me up when it’s all over», recita una delle sue canzoni più famose. Ciao!

 

[1] M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Milano 2015, §7, 54.
[2] F. O’CONNOR, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Roma 2010, 148.
[3] ID, Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere, Milano 2011, 99.
[4] Ivi, 96 – 97.