AL DI LA’ DEL MEKONG
Guarire dalla morte

Guarire dalla morte

La liturgia del tempo pasquale, i tweet di Donald Trump e quanto accade qui in Cambogia, mi interpellano. A pensarci bene ha ragione il piccolo Rotha: siamo tutti malati di morte. Ma sta a noi decidere davanti a chi inchinarsi per guarire

 

«…la storia,
quella che viviamo,
sia tua ancora,
qui,
in pur terribile martirio!
Ascolta,
Cristo,
ascolta questa voce!».
G. Testori

 

La liturgia del tempo pasquale, i tweet di Donald Trump e quello che accade qui in Cambogia, mi interpellano. Se infatti dalla liturgia di questi giorni pieni di luce raccolgo l’evidenza che il Cristo è davvero risorto ed è presente in mezzo a noi come Signore della storia, al contrario, dai tweet di Donald Trump raccolgo una capricciosa smentita a questa vita risorta con un isterico, immaturo e irresponsabile messaggio di morte. Particolarmente quel tweet con il quale il Presidente preannunciava l’attacco poi avvenuto alla Siria: «Russia stai pronta», era l’incipit del messaggio, anche se poi i missili «belli nuovi e intelligenti» sarebbero finiti in Siria. Che si tratti quindi di una guerra dai molti protagonisti esterni che si combattono in casa d’altri, appare evidente. Eppure i veri interessi cominciano a monte, dal semplice impiego delle armi. Il costo di uno solo dei missili Tomahawk IV lanciati in quest’ultimo attacco può arrivare al milione di dollari (Avvenire). Ne sono stati lanciati più di cento. La moltiplicazione, presto fatta, porta a guadagni importanti, vincenti anche nel caso di un mancato bersaglio! Perché è sparare che muove l’economia. Dunque la guerra non la pace!

Quanto alla Cambogia invece, parto dall’esperienza di un bambino che ha appena perso il papà, morto di infarto a quarant’anni. Il bambino si chiama Rotha e ha cinque anni. Nel suo modo di comprendere la morte del padre ci offre qualche indicazione. La mamma mi raccontava che Rotha ha avuto bisogno di tempo per capire la morte. All’inizio pensava che «morte» fosse il nome di una malattia e che, una volta guarito, il papà sarebbe tornato. Nei giorni successivi per quanto ormai la parola «morte» cominciasse a far parte del suo vocabolario, Rotha continuava a considerarla una malattia e chiedeva alla mamma, con insistenza e speranza, «quando il papà guarisce dalla morte e torna?». Utilizzava questa espressione, «guarire dalla morte». In cambogiano c’è una felice coincidenza tra il verbo guarire e il verbo essere, sono la stessa parola. Perché se si guarisce si continua ad essere, a vivere, mentre se non si guarisce, si muore e l’essere nostro se ne va. Rotha aspettava, aspetta ancora che il suo papà guarisca dalla morte e torni.

A pensarci bene, Rotha ha ragione. Siamo tutti malati di morte. Perché la nostra stessa natura si iscrive in un ciclo di vita e di morte e perché la storia degli uomini si dispiega in un tempo per nascere e in un tempo per morire. Anche i nostri rapporti più belli, più cari possono essere malati di morte. Allo stesso modo la tweet-politica di Trump è un preannuncio virale di morte. Le armi che si comprano, si vendono, si usano in casa propria e in casa d’altri, sono strumenti di morte. La natura e la storia degli uomini sono quindi malate di morte.

Ho sempre più bisogno di un giudizio su questa storia che mi faccia sicuro di un destino buono. Di una base sicura da cui ripartire domani. Ho bisogno della luce della Pasqua. Del battesimo, della comunione con Cristo e tra di noi. Io non ho paura di Dio, ho piuttosto paura dell’uomo. Se un tempo i detrattori parlavano della fede come timor di Dio e paura per il suo giudizio, io ora invece cerco questo giudizio. Perché non ho paura di Dio, anzi lo desidero. Ho piuttosto paura degli uomini e del male che si fanno. Eppure, con Etty Hillesum, «non voglio essere il cronista degli orrori» (1). Voglio piuttosto sentire più profondamente «la vita dal punto di vista del mistero cristiano centrale: cioè che per essa, a dispetto di tutto il suo orrore, Dio ha ritenuto valesse la pena morire». «Questo semmai – continua la scrittrice americana F. O’Connor che tanto avrebbe da insegnare all’americano Trump – dovrebbe ampliare, non restringere, il campo visivo dello scrittore» (2). E di chiunque non si inchini dinanzi agli idoli di qualsiasi specie.

Sono consapevole che in questo mio scrivere sto tentando di colmarmi, di mettermi al sicuro, di essere riconosciuto (3), di guarire la storia scrivendo… e nondimeno vorrei mettere al sicuro anche Rotha, offrirgli una base sicura, portagli Cristo come «possibilità necessaria», come interlocutore a cui porre un po’ di domande. Per esempio «quando il papà guarisce dalla morte e torna?», o la domanda di San Paolo, «chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rom 7,24). Solo così potremmo guarire. Dalla morte dentro i nostri corpi, i nostri amori, i nostri tweet. Aggrappandoci a Colui che ha vinto la morte.

Resta solo un ultimo problema, che ancora una volta è nostro, non di Dio. Il problema di sempre, dall’inizio della storia fino al suo epilogo; la domanda, solo una, che sta al vertice della Leggenda del grande Inquisitore, dalla cui risposta dipende tutto il bene e tutto il male del mondo, il destino dell’uomo, la sua libertà e cioè «Davanti a chi inchinarsi?». Perché – continua il grande inquisitore – «Io ti dico che non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura» (4). Possa ciascuno fare come Etty che alla fine di quell’orrore di morte era felice di aver re-imparato a inginocchiarsi solo dinanzi a Dio e considerava quel gesto il più puro, «l’eredità più preziosa» dell’uomo che aveva amato forse di un amore malato. Eppure…

Domani 23 aprile 2018, qui a Pka Doung comincia la costruzione di altre due aule scolastiche. Per dare a molti più ragazzi/e la possibilità di studiare. È il nostro modo, per ora, di guarire dalla morte. La nostra controffensiva che però non offende nessuno. Ciao!

  1. E. HILLESUM, Diario 1941 – 1943, Milano 1996, 233.
  2. F. O’CONNOR, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Roma 2010, 94.

  3. Cfr. S. PETROSINO, Contro la cultura. La letteratura, per fortuna, Milano 2017, 63 – 64.

  4. F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Milano 1989, 270 – 271.