«Il Myanmar, l’Asia e il virus dell’autoritarismo»

«Il Myanmar, l’Asia e il virus dell’autoritarismo»

Il Paese asiatico sprofonda ogni giorno di più nella violenza. «Ma non possiamo rubare i sogni ai giovani», dice nell’intervista che apre il numero di aprile di «Mondo e Missione» il cardinale Bo, arcivescovo di Yangon. Che invita ad allargare lo sguardo per capire la vera posta in gioco: «Su dieci Stati dell’Asean, solo due possono essere definiti vere democrazie. Lo sviluppo economico è aumentato, ma ha avuto un costo enorme in termini di diritti umani e libertà»

 

Credevano di aver voltato pagina davvero, in Mya­nmar. Dopo decenni di durissima dittatura militare, di epurazione del dissenso, terrore e violenza, le recenti aperture democratiche avevano portato una ventata di speranza quasi inattesa. Aung San Suu Kyi, icona dell’opposizione, dagli arresti domiciliari al Parlamento e poi al governo sembrava un sogno. E anche se negli ultimi anni tanti nodi che ancora legano questo meraviglioso Paese del Sud-est asiatico erano venuti al pettine, a cominciare dalle tensioni tra le molteplici comunità etniche che lo abitano da sempre, il cammino democratico non si era interrotto.

Così, alle elezioni dello scorso novembre, la National League for Democracy (Nld) di daw Suu, la “signora”, come da sempre il popolo della ex Birmania chiama l’amatissima leader democratica, aveva stravinto, mantenendo la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento. Un successo plateale che evidentemente preoccupava i militari, forza sempre potentissima in Myanmar, seppure spostatasi un po’ più nell’ombra rispetto al passato.

Erano partite così le denunce di brogli e le richieste di riconteggio dei voti da parte dei vertici delle forze armate, proprio nel momento in cui la solidità politica del governo civile risentiva delle prese di distanza della comunità internazionale in seguito alle accuse di aver avallato le violenze dell’esercito nei confronti della minoranza etnica dei rohingya.

Poi, il 1° febbraio, la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire un’altra volta: il Tatmadaw (l’esercito del Myanmar) rendeva noto l’arresto di Aung San Suu Kyi, del presidente Win Myint e di altri leader dell’Nld e il passaggio dei poteri al comandante in capo delle forze armate, Min Aung Hlaing. Un nuovo golpe, lo stato di emergenza imposto per un anno, i blocchi alla rete telefonica e a internet. E, di nuovo, il popolo in piazza, disposto a subire la brutalità della repressione pur di non fare un salto spaventoso nel passato.

«La situazione è critica, dobbiamo fermare il massacro: abbiamo visto troppo sangue nella nostra storia». Il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, non nasconde la preoccupazione, né l’urgenza del momento: «Bisogna negoziare, il muro contro muro può portare solo alla tragedia». Lo aveva dichiarato da subito, il cardinale birmano: il 3 febbraio aveva diffuso un messaggio in cui, condannando il golpe, esortava le parti al confronto, per il bene del Paese.

Eminenza, qual è la situazione sociale in questo momento?

«Le condizioni erano disastrose già prima del colpo di Stato: la pandemia di Covid-19 ha fatto sprofondare nell’insicurezza alimentare quasi il 60% della popolazione. Le aziende hanno chiuso i battenti e milioni di persone hanno perso il lavoro. La fame stava aumentando e questa nuova tragedia ci ha colpito proprio ora che il popolo è più vulnerabile. Anche sul fronte della salute la situazione è precaria. Se il virus già minacciava il fragile sistema sanitario, ora molti medici stanno lasciando gli ospedali per protesta, proprio mentre la campagna vaccinale è appena iniziata. Finora la risposta alla pandemia era stata buona e, nonostante i problemi, i tassi di infezione e mortalità non erano molto alti. Adesso non sappiamo che cosa accadrà».

Dal Myanmar ci arrivano le immagini di folle oceaniche che manifestano in tutte le città contro il colpo di Stato: la protesta è sostenuta trasversalmente dalla popolazione?

«Il movimento di disobbedienza civile è stato spontaneo, avviato inizialmente da un medico: i giovani hanno aderito e si sono riversati a migliaia per le strade, pacificamente. Il popolo ha affrontato innumerevoli sfide nell’ultimo anno: la pandemia ha spinto le persone al limite della sopravvivenza e c’era grande aspettativa verso un nuovo governo che potesse rispondere ai bisogni urgenti. Per questo, ora, la gente è esasperata e sostiene le proteste».

Come stanno reagendo i fedeli cattolici, il clero, la Chiesa?

«La risposta non è uniforme, si tratta di un tema molto sensibile. C’è una nuova generazione di fedeli, cresciuta con i social media e la conoscenza del mondo esterno, che ha una maggiore consapevolezza dei propri diritti e quindi si oppone a tutto ciò che sente come un’ingiustizia. Questi ragazzi sono nati dopo il precedente golpe e sono diventati maggiorenni nell’era di internet: i loro valori e la loro formazione non provengono più solo dalla famiglia e dalla Chiesa. Essi sono in prima linea nel movimento di resistenza e questo ha un impatto forte sulla comunità: tanti sacerdoti e religiose sono commossi da questa partecipazione».

La Chiesa si è mossa attivamente?

«Abbiamo proposto digiuni e veglie per la pace. Lentamente, molti di questi giovani stanno tornando anche alla preghiera, nelle parrocchie o per le strade. Bisogna tenere presente che la Chiesa cattolica è molto diversificata dal punto di vista etnico, visto che è composta da otto etnie principali e da altre comunità, come cinesi e indiani. La maggior parte delle nostre diocesi fa riferimento a minoranze, e questo comporta visioni a volte differenti, eppure c’è una risposta molto simile a livello dei fedeli più giovani. Come Conferenza episcopale abbiamo fatto appello a tutti affinché sia istituito un dialogo tra le parti».

Quale via d’uscita vede a questa situazione?

«Non c’è alternativa al dialogo. Temiamo uno spargimento di sangue su larga scala: il dramma dei genitori che seppelliscono i propri figli deve finire. Dunque non cessiamo gli sforzi per portare le parti al tavolo delle trattative. La comunità internazionale e le Nazioni Unite si sono espresse con forza contro il golpe e la sessione speciale dell’Onu sul Myanmar ha chiesto il ritorno alla democrazia. Purtroppo finora non c’è stata risposta dall’esercito, che tuttavia resta un interlocutore fondamentale perché è molto potente e controlla la polizia. L’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) sta provando a coinvolgerlo in un dialogo ma non ci sono ancora risultati sostanziali. I militari hanno dichiarato l’intenzione di tenere nuove elezioni entro un anno, ma è da vedere se questo si verificherà. Lo scenario più cupo sarebbe la ripetizione di ciò che successe nell’88, quando la giunta militare si consolidò e rimase al potere per altri due decenni. Preghiamo che questa volta non accada».

Pensa che la delegittimazione di Aung San Suu Kyi da parte della comunità internazionale sia stata un errore?

«I giovani sono saldamente con Aung San Suu Kyi, la gente la ama. Alle elezioni dello scorso novembre ha ottenuto l’83% dei voti, e quando si tornerà a votare vincerà di nuovo. All’interno del Paese la sua autorevolezza è aumentata. Sicuramente il suo splendore come icona della democrazia si è offuscato a causa della controversa difesa dell’esercito nei tribunali internazionali, e alcuni gruppi per i diritti umani e ong sono profondamente delusi da lei. Ma la reazione del mondo al colpo di Stato ci dice che non è un gioco a somma zero: la maggior parte dei governi ha chiesto il ritorno della democrazia e il ripristino della leadership di Aung San Suu Kyi».

Cosa chiederebbe alla comunità internazionale?

«Di vedere il Myanmar oltre i partiti politici e l’esercito. Questa è una nazione di gente laboriosa che è stata messa a dura prova per settant’anni. Una volta eravamo il Paese più ricco dell’area, ma ora siamo tra i più poveri al mondo. Ho fatto appello alla comunità internazionale a non mutilare la nostra economia attraverso sanzioni severe: il popolo ha bisogno di lavoro, ha bisogno di cibo. I Paesi esteri devono passare dalla condanna al coinvolgimento: i negoziati sono l’unica via d’uscita, non uno scontro ancora più duro».

Ha fiducia nella nuova generazione del Myanmar?

«Come salesiano e convinto sostenitore dell’affetto di san Giovanni Bosco per i giovani, ho grande fiducia. E il mio cuore piange per loro. Quattro o cinque generazioni hanno visto distruggere i loro sogni in questo Paese e oggi i ragazzi combattono, ancora una volta, per non vedere i propri sogni trasformarsi in un incubo. Non possiamo deluderli di nuovo. Il Myanmar è benedetto da tantissime ricchezze naturali, ma quella umana è la risorsa migliore. Quasi il 40% della popolazione è giovane: se solo i nostri leader valorizzassero il dividendo demografico questa nazione potrebbe superare qualsiasi vicino ricco entro un decennio. I nostri ragazzi hanno bisogno di una buona istruzione, di posti di lavoro dignitosi e della promessa di un futuro sereno. Lo chiedono. Sono sicuro che lo spirito di don Bosco è con loro nella lotta, ma temo per la loro incolumità. Cosa succederà se dovranno affrontare ancora delusioni e fallimenti? Come Chiesa e nazione, dobbiamo proteggerli».

Lei è anche presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche: quali sono le principali sfide nell’area?

«La prima riguarda il virus delle democrazie illiberali e dell’autoritarismo, che ha contagiato molti Paesi asiatici. Su dieci Stati dell’Asean, solo due possono essere definiti vere democrazie. Sebbene lo sviluppo economico sia aumentato, esso ha avuto un costo enorme in termini di diritti umani e libertà. Persino l’India, un tempo faro della democrazia, è scivolata nella manipolazione illiberale. Proprio in queste settimane abbiamo il triste caso di un anziano sacerdote di 83 anni, il gesuita padre Stan Swamy, incarcerato per il suo lavoro con i poveri».

E quali sono le altre priorità?

«In tutta l’area, la corsa allo sviluppo ha mutilato due grandi diritti costantemente ricordati da Papa Francesco: quelli economici e quelli ambientali. C’è poi il grande tema delle migrazioni: i Paesi ricchi in Asia hanno beneficiato dello sfruttamento della manodopera a basso costo proveniente dagli Stati più poveri. Non esiste un accordo regionale per la protezione del lavoro e oggi milioni di persone si trovano al di fuori del loro Paese, spesso in condizioni strazianti di moderna schiavitù.

Vorrei infine ricordare i popoli indigeni, a cui abbiamo rivolto l’attenzione grazie al Sinodo sull’Amazzonia e all’enciclica Laudato si’, che hanno richiamato a un maggiore rispetto per il loro modo di vivere e a un’accresciuta protezione dell’ambiente naturale. In Asia c’è una vasta area, che si estende dai mari della Cina meridionale alle zone centrali dell’India, dove gli indigeni un tempo vivevano in armonia con la natura, ma oggi questi popoli sono ridotti nei numeri e lo stile di vita attuale minaccia sempre più la loro stessa sopravvivenza. Non possiamo voltarci dall’altra parte».

 

UOMO DEL DIALOGO

Charles Maung Bo, primo cardinale del Myanmar, è arcivescovo di Yangon dal 2003. Nato nel 1948 in un villaggio nell’arcidiocesi di Mandalay, è ordinato sacerdote salesiano nel 1976. Nel 1990 diventa vescovo di Lashio, nel 1996 passa alla diocesi di Pathein e nel 2002 all’arcidiocesi di Man­dalay.  Sostenitore del dialogo, dal 2000 al 2006 è a capo della Con­ferenza episcopale del Myanmar. Il Papa lo crea cardinale nel 2015. Dal 2019 presiede la Federazione delle Con­ferenze episcopali dell’Asia.