#MeToo: in Asia parlare di violenza non è più tabù

#MeToo: in Asia parlare di violenza non è più tabù

Sulla scia del movimento lanciato negli Stati Uniti, le donne stanno uscendo allo scoperto anche in Giappone, Cina e Corea per denunciare abusi e molestie sessuali

 

Tutto è iniziato nell’ottobre scorso con Harvey Weinstein e con le accuse di molestie sessuali a lui rivolte da alcune attrici. L’hashtag #MeToo, lanciato su Twitter, è diventato subito virale, anche fuori dalla cerchia dorata del mondo del cinema. È stato interpretato come un invito a uscire allo scoperto per denunciare gli abusi subiti, senza vergognarsi. Perché è bene ricordarlo – oggi che è l’8 marzo – che la violenza contro le donne attecchisce dove c’è una cultura del silenzio e dove la vittima si sente colpevole per quanto ha subito. Le denunce spesso cadono nel vuoto e quindi scoraggiano le donne a rivolgersi alla giustizia. Questa impunità finisce per alimentare un circolo vizioso, legittimando i comportamenti maschili violenti.

È quanto accade anche in molti Paesi dell’Estremo Oriente. La violenza contro le donne, infatti, non è un’esclusiva dei Paesi poveri e culturalmente arretrati. Persino nelle grandi metropoli di Giappone, Cina e Corea, dove le donne sono inserite da decenni nel mondo del lavoro, la molestia è sempre in agguato, frutto di una cultura machista difficile da sradicare. Il movimento #MeToo ha incoraggiato molte giovani a parlare, scoperchiando il vaso di Pandora.

Uno dei casi più eclatanti riguarda il Giappone. Quando pensate alla cultura del Sol Levante, non fatevi trarre in inganno dalla gentilezza formale che caratterizza le relazioni sociali. Dietro ai sorrisi e agli inchini, c’è un Paese ancora fortemente maschilista, in cui da anni si combatte contro il chikan, l’odioso palpeggiamento in luoghi affollati come la metropolitana. In Giappone apparentemente gli stupri sono un fenomeno limitato (nel 2014, solo 1 donna su 15 ha ammesso di aver subito violenza sessuale, mentre negli Usa questo dato sale a 1 donna su 5), forse perché poche hanno il coraggio di denunciare. Il rischio, infatti, è quello di esporsi invano, senza ottenere giustizia, come attesta la vicenda di Shiori Ito. La giovane, mentre era studentessa in Giornalismo a New York, aveva conosciuto un connazionale, il cinquantenne giornalista Noriyuki Yamaguchi, che vantava conoscenze altolocate, tra cui il primo ministro Shinzo Abe. Il 3 aprile 2015 Yamaguchi è a Tokyo e invita Shiori a cena, con la scusa di discutere di possibili opportunità di lavoro. Ito ha 28 anni e non è una ragazzina sprovveduta. D’improvviso, però, inizia a girarle la testa e si sente male, al punto da perdere conoscenza. Con tutta probabilità, l’uomo le ha versato una droga nel suo bicchiere. Quanto accade dopo, Ito l’ha ricostruito grazie alla testimonianza di un tassista e delle telecamere dell’hotel dove Yamaguchi alloggiava. L’uomo la trascina nella sua camera e abusa di lei. Quando si risveglia, la giovane ancora stordita riesce ad andarsene. Va da un ginecologo, ma riceve scarsa assistenza. È devastata, e non riesce a recarsi subito dalla polizia. Ci va cinque giorni dopo. «Inizialmente i poliziotti hanno cercato di scoraggiarmi dal presentare denuncia, dicendo che la mia carriera sarebbe stata rovinata, e che “questo tipo di cose capitano spesso, ma sono difficili da investigare”», racconta lei stessa su Politico.com. Alla fine, un’inchiesta parte, ma malgrado l’evidenza del reato e le relative prove Yamaguchi non viene arrestato. Forse qualcuno ha fermato l’azione della polizia. Shiori Ito ha pubblicamente denunciato gli eventi in una conferenza stampa nel 2017 e ha scritto un libro, osando fare ciò che poche giapponesi farebbero: raccontare in pubblico una violenza subita.

Anche in Cina #MeToo ha spinto le donne a sfidare lo stretto controllo sociale, che impedisce di denunciare le violenze. La trentacinquenne Luo Qianqian nel gennaio scorso ha rivelato al Guardian le molestie subite 12 anni prima da un suo professore, quando era una dottoranda a Pechino, lanciando una campagna che traduce l’hashtag #MeToo in cinese. Fra le altre voci femminili di denuncia, c’è anche quella di Sophia Huang Xuequin, 29 anni. All’epoca del suo primo impiego, ha dovuto prendere a calci nei genitali un collega maschio che aveva tentato di allungare le mani su di lei. Sophia ha lanciato una campagna fra le giornaliste cinesi per rendere noti abusi e ricatti subiti.

Non si creda, però, che il fenomeno riguardi solo la stampa. A Singapore, sul sito Hear To Change vengono raccolte in modo anonimo le testimonianze di donne provenienti da ogni angolo del mondo. Non mancano anche le singaporeane. Una hostess racconta, nella storia n.11, delle profferte subite, quando era neoassunta, da un suo capo. «Non potevo parlarne con nessuno all’epoca perché avevo paura di perdere il lavoro. Ho fatto il possibile per cambiare le tabelle di volo e non trovarmi più a prestare servizio nel suo turno», racconta.

In Corea del Sud nel gennaio scorso ha fatto scalpore la testimonianza di una donna pubblico ministero, Seo Ji-hyeon, che ha denunciato di essere stata palpeggiata nel 2010 durante un funerale dal collega Ahn Tae-jeun, anch’egli magistrato. All’epoca, la donna ha prontamente denunciato il fatto ai suoi superiori ma nulla è accaduto. O meglio, la sua protesta le si è ritorta contro: Seo è finita al centro di un procedimento disciplinare, è stata degradata e trasferita, dopo 15 anni di lavoro, in un tribunale periferico e lontano. Il caso, emerso grazie alla campagna mediatica che sta spingendo ovunque le donne a parlare, ha suscitato l’interesse del presidente sudcoreano Moon Jae-in, che ha auspicato “la creazione di un ambiente di lavoro in cui le vittime possano parlare senza paura”.

Persino nella marginale Mongolia sono giunti gli echi di #MeToo, anche se le donne fanno grande fatica a parlare. Qui la violenza è soprattutto domestica: una famiglia su tre ne risulta colpita e farne le spese sono i più deboli, donne e bambini. La normativa esistente, emendata lo scorso anno, riconosce per la prima volta la violenza domestica come reato penale e impone l’obbligo di intervento e investigazione da parte della polizia. Forse è tempo che il proverbio popolare mongolo “ciò che accade nella yurta, resti nella yurta” vada in pensione.