In Mongolia vince l’opposizione. Si volta pagina?

In Mongolia vince l’opposizione. Si volta pagina?

Potrebbe aprirsi un nuovo capitolo nel Paese asiatico, dopo il voto di questa settimana con la vittoria dell’opposizione. Ma corruzione, ineguaglianze e inflazione minacciano convivenza e legalità.

Il recente voto in Mongolia, con la vittoria netta dell’opposizione, apre potenzialmente una pagina del tutto nuova nella tormentata storia politica del grande ma sottopopolato Paese dell’Asia centrale. Non a caso, si pone anche in una contingenza nuova, con una economia fino in anni recenti arrembante ma limitata alla solo disponibilità di risorse minerarie ora in netto arretramento e istanze che sono insieme di crescita, liberalizzazione e di tutela davanti alla pressioni di vicini potenti e storicamente dominanti. Paradossalmente, le necessità di rinnovamento sono affidate a un partito, quello del Popolo mongolo, di ideologia sovietica, che per decenni ha guidato il Paese prima della transizione alla democrazia nel 1990. Mercoledì scorso il Ppm ha ottenuto 65 dei 76 seggi nel parlamento monocamerale, il Grand Khural. Il rivale maggiore, il Partito Democratico, che nel precedente Parlamento aveva 38 seggi, ne ha avuti solo nove.

Risultati ancora ufficiosi, in attesa della conferma della Commissione elettorale, ma che pochi contestano. Una disfatta, accentuata dalla mancata rielezione nella massima assise legislativa, dell’ex premier Chimed Saikhanbileg, alla guida di un governo in carica dal 2011 che aveva vinto basando la sua campagna su una ridistribuzione della ricchezza in un tempo di crescita del 17,5 per cento. Crisi globale e condizioni interne hanno portato la Mongolia a un tasso di crescita previsto per l’anno dello 0,4 per cento e un debito pubblico che appare fuori controllo.

Questo ha incentivato un’affluenza record alle urne del 72,1 per cento degli aventi diritto fra i tre milioni di abitanti e la svolta che non potrà non avere effetto anche sulle presidenziali del prossimo anno. L’attuale capo dello Stato, Tsakhia Elbegdorj, tecnocrate educato a Harvard, è infatti membro del Partito democratico e ora al secondo mandato, ultimo secondo le attuali leggi.

Al partito va accreditato di avere garantito l’indipendenza formale della Mongolia tra Repubblica popolare cinese e Unione sovietica, sebbene in simbiosi economica pressoché assoluta con Mosca, e di avere traghettato il paese verso una economia di mercato nei drammatici mesi successivi alla caduta del regime sovietico senza cedere alle pressioni e alle lusinghe di Pechino che sul Paese allunga rivendicazioni di controllo storico.

Molti gli ostacoli sul cammino dei nuovi governanti del Paese, vasto cinque volte l’Italia, con una urbanizzazione in crescita, notevoli cambiamenti negli stili di vita e finora con uno sviluppo basato sullo sfruttamento delle sue immense risorse naturali. Una crescita che tuttavia è stata segnata da fratture diffuse nella società dove corruzione, ineguaglianze e inflazione minacciano convivenza e legalità.

La necessità di una maggiore integrazione con le economie regionali, a partire da Cina e Russia, senza rinunciare al principio di equidistanza e di maggiori rapporti con le economie globali, è oggi centrale e sempre più lo sarà. L’isolamento aperto alla cooperazione, infatti, potrebbe non essere più in grado di garantire al Paese i vantaggi finora goduti ma pagati anche con degrado ambientale e sociale.