Un anno dopo, Afghanistan dimenticato

Un anno dopo, Afghanistan dimenticato

Il 15 agosto 2021 i talebani occupavano Kabul e tornavano al governo del Paese che, da allora, è sprofondato in un baratro di miseria e diritti violati. Le voci di chi è rimasto e di chi è riuscito a fuggire e a iniziare una nuova vita

Fino allo scorso agosto, Mahdia viveva a Herat con la famiglia e le sue giornate di diciassettenne erano serene, divise tra lo studio e gli allenamenti di taekwondo, l’arte marziale coreana imparata da bambina e di cui era diventata campionessa. «A undici anni ho iniziato a frequentare una palestra aperta con il sostegno dell’ambasciata americana: all’inizio ci andavo di nascosto dai miei genitori perché in Afghanistan per una ragazza praticare uno sport era considerato inopportuno, ma dopo qualche mese gliene ho parlato e loro mi hanno lasciata libera. Così a quindici anni sono entrata nella squadra nazionale».
Mahdia Sharifi è una tipa tosta. Ha dovuto imparare molto presto ad affrontare gli ostacoli che nel suo Paese, da sempre, una donna trova puntualmente sul proprio cammino a causa di ataviche tradizioni patriarcali che i due decenni di occupazione occidentale non sono riusciti a scalfire se non superficialmente. In più, a Mahdia è toccato fare i conti con quei suoi tratti somatici – occhi a mandorla e lineamenti orientali tipici del popolo hazara, a maggioranza sciita – che nell’Afghanistan delle rigide identità etniche la relegavano in una condizione sociale svantaggiata: «Avevamo sempre problemi, nelle nostre scuole c’erano insegnanti scadenti e se dovevamo andare in qualche ufficio governativo subivamo molte discriminazioni, visto che i funzionari erano quasi tutti pashtun, che si credono i padroni dell’Afghanistan e ci considerano delle nullità».
La giovanissima atleta, tuttavia, aveva sperimentato anche alcuni benefici garantiti al suo Paese dalla presenza delle forze internazionali: una certa stabilità e una serie di opportunità formative e professionali almeno per chi gravitava intorno alle città più importanti. Per questo il ritorno dei talebani al potere, esattamente un anno fa, ha rappresentato per lei uno shock impensabile.
«Sapevamo che ormai stavano raggiungendo la capitale», ricorda. «Il quindici agosto sono andata alla palestra per l’ultima volta e, al ritorno a casa, ho trovato i miei fratelli nel panico: mia sorella maggiore Sediqa, che lavorava in un ufficio governativo a Kabul, aveva telefonato per intimarci di partire immediatamente, allarmata per l’arrivo degli estremisti e per ciò che facevano alle ragazze. Così, senza poter nemmeno salutare i miei genitori che non erano in casa, io, un’altra sorella e il nostro fratello più piccolo ci siamo precipitati all’aeroporto di Herat e siamo riusciti a volare a Kabul, dove siamo rimasti nascosti per due settimane, le peggiori della mia vita. Alla fine, grazie ai contatti di Sediqa, una notte siamo riusciti a raggiungere l’aeroporto e a imbarcarci su un volo umanitario per l’Italia».
Ciò che è successo nelle settimane seguenti, e nei lunghi mesi successivi fino ad oggi, quando i riflettori del mondo si sono spenti sull’Afghanistan per spostarsi verso la guerra nel cuore dell’Europa, può testimoniarlo in prima persona Alberto Cairo, che dal 1990 lavora nel Paese per la Croce Rossa Internazionale e per Nove, organizzazione italiana al servizio delle donne e delle persone disabili.

«La situazione è precipitata», racconta il fisioterapista 70enne, che coordina i progetti ortopedici della Croce Rossa. «Se l’economia non è mai stata florida, oggi è in uno stato disastroso. Moltissime attività hanno chiuso, mancano investimenti, le banche non funzionano e i nuovi poveri sono un’infinità: in tanti hanno perso il lavoro e non sanno come arrivare alla fine della settimana». I numeri parlano da soli, se è vero che quasi 20 milioni di persone – circa metà della popolazione – soffrono la fame. Oltre all’incapacità del nuovo governo talebano di gestire una crisi umanitaria dietro l’altra, Cairo attribuisce la paralisi dello Stato anche all’embargo internazionale: «Gli aiuti stranieri, che rappresentavano quasi l’80% del budget nazionale, sono stati sospesi, e i fondi del Paese all’estero congelati. L’Occidente dice di voler punire un governo che definisce “fuorilegge”, anche se con questa gente ha trattato, e intanto colpisce il popolo».

Il grave terremoto che a giugno ha sconvolto la provincia orientale di Paktika, provocando circa 1.500 vittime, ha rappresentato l’ulteriore, drammatica prova dell’inadeguatezza della nuova classe politica, costituita da fanatici religiosi o ex combattenti, che non sono riusciti a organizzare i soccorsi nei villaggi distrutti dal sisma.
«La gente vive in uno stato di paura e quasi disperazione – ammette Cairo – e si respira grande malcontento. Socialmente non c’è inclusione etnica: tagiki, hazara, uzbeki non sono al governo, tranne rarissime eccezioni, mentre le donne sono state di nuovo cancellate dalla vita pubblica».
Vero è che, nella pratica quotidiana, le nuove direttive non sono poi applicate rigidamente. «Ogni mattina vedo le ragazze che vanno all’università senza coprirsi il viso, mentre le donne che lavorano con noi non hanno dovuto subire restrizioni: possono prendere l’autobus, nei reparti operano insieme ai colleghi maschi e si relazionano direttamente con i genitori dei piccoli pazienti. Le scene raccapriccianti a cui ci aveva abituato il primo regime talebano, come le lapidazioni pubbliche, per ora non si sono viste… Mi sembra che, rispetto a 25 anni fa, il tentativo di isolarsi dal mondo non sia così deciso, anche perché oggi la diffusione di internet e dei social lo renderebbe più difficile». Così, «le organizzazioni non governative non ricevono pressioni o condizionamenti dalle autorità, anche perché noi oggi facciamo le veci del governo su tanti fronti, a cominciare dal supporto, secondo le nostre possibilità, alla stessa sussistenza della gente…». E se la povertà influenza anche l’efficacia dell’impegno umanitario – «spesso i pazienti saltano la terapia perché non hanno i soldi per venire in ambulatorio…» – le divisioni tra diverse fazioni talebane non garantiscono nemmeno la sicurezza.

In questo contesto, la presenza della Chiesa è ancora più sottotraccia rispetto agli ultimi vent’anni. A raccontarlo è padre Giovanni Scalese, barnabita responsabile della Missio sui iuris afghana, fuggito lo scorso agosto con gli ultimi fedeli rimasti. Da allora, l’unico luogo di culto cattolico nel Paese, che sorge all’interno dell’ambasciata italiana a Kabul, è chiuso. «Attualmente la nostra rappresentanza diplomatica opera da Doha, in Qatar», spiega il missionario 66enne. «I rappresentanti presenti in loco tuttavia ci hanno confermato che la chiesa è in sicurezza: nessuno in questi mesi l’ha toccata». Ora, secondo padre Scalese, sarebbe il caso di valutare un ritorno. «I gesuiti, che a Kabul gestiscono il Jesuit Refugee Service, stanno pensando di riaprire le loro attività, naturalmente in modo graduale e osservando le necessarie misure di sicurezza, prima tra tutte quella di richiedere visti da operatori sociali. Più complicata è la situazione per quanto riguarda le suore: per l’attuale regime, infatti, la presenza di donne sole non è tollerabile». Per quanto riguarda un eventuale rientro del barnabita, «la decisione dipende dalla Santa Sede, ma la questione deve essere affrontata, e ne ho parlato apertamente con i rappresentanti del Vaticano. Anche la cooperazione italiana al momento opera dal Pakistan, ma sono convinto che avere di nuovo una presenza sul territorio sarebbe molto importante per incidere sulla situazione umanitaria».
Una valutazione condivisa da Alberto Cairo: «Mentre oggi non c’è spazio di azione per la società civile afghana, la comunità internazionale ha la responsabilità di dialogare con i talebani trovando le vie giuste, magari a livello locale e non ministeriale, per evitare che sia la popolazione a pagare». Popolazione che, «tranne qualche raro esempio di lodevole resistenza, oggi ha l’unico miraggio di lasciare il Paese». Nella speranza di cogliere la chance di una nuova vita.

Mahdia Sharifi ce l’ha fatta. Dopo mesi di dolore e straniamento, quando «non riuscivo nemmeno a focalizzarmi sullo studio dell’italiano perché la mia testa era ancora in Afghanistan», ha cominciato a rimettere insieme i pezzi della sua esistenza. E ha bussato alla porta di una palestra a Genova: «Lì sono tornata a praticare il taekwondo e, pian piano, mi sono rimessa in forma, finché gli atleti della nazionale italiana mi hanno accolta per allenarmi con loro». Oggi Mahdia ha ricominciato a sorridere. Lotta sul tatami e punta a una borsa di studio per l’università. Ma ogni giorno pensa alle tante ragazze come lei che, in Afghanistan, hanno a malapena un presente, figurarsi un futuro. «È terribile. Laggiù non c’è speranza». MM