Quando Paolo VI andò a Teheran

Quando Paolo VI andò a Teheran

Ricorrono i 50 anni dall’ultimo viaggio di Paolo VI, ricordato per l’attentato di Manila. Ma quel lungo itinerario in Asia iniziò con uno scalo tecnico in Iran. E fu seguito a Dhaka da un gesto di fratellanza verso il mondo musulmano

 

Esattamente cinquant’anni fa Paolo VI compiva in Asia e Oceania l’ultimo dei suoi nove viaggi apostolici. Il più lungo – dieci giorni – e anche quello con il numero maggiore di Paesi toccati. Un viaggio ricordato oggi da Vatican News per l’attentato subito da Montini appena atterrato a Manila, quando un pittore boliviano, Benjamin Mendoza y Amor, vestito da sacerdote, lo colpì con un pugnale che teneva nascosto in un panno, provocando fortunatamente solo una ferita lieve. Quel viaggio, però, andrebbe ricordato soprattutto per tanti altri gesti: la visita di Montini al Tondo, la grande baraccopoli nel quartiere del Santo Nino a Manila; e poi la sosta sull’Isola di Apia, a dialogare con la piccolissima comunità cristiana del villaggio di Leulomoega; la tappa a Sidney in dialogo con i giovani della generazione del Sessantotto; fino all’ultimo discorso a Hong Kong, alle porte della Cina di Mao appena attraversata dal furore della Rivoluzione culturale.

Di quel viaggio però c’è anche un altro filone interessante e oggi del tutto sorprendente da rileggere: quello dei rapporti tra Montini e il mondo musulmano. Pochi infatti ricordano che Paolo VI è il Papa che è riuscito ad andare persino a Teheran. Certo, si trattò solo di uno scalo tecnico (allora nei viaggi più lunghi gli aerei dovevano compiere delle soste per il rifornimento di carburante). E quello era l’Iran dello scià Reza Pahlevi, che nel 1979 sarebbe poi stato spazzato via dalla rivoluzione islamica dell’ayatollah Komehini. Ma non fu affatto un passaggio insignificante.

Nel libro Paolo VI Destinazione mondo – che ho scritto qualche anno fa insieme a Lorenzo Rosoli – abbiamo raccolto una testimonianza di un testimone diretto di quell’evento apparentemente inimmaginabile per il mondo di oggi. Il cardinale Giovanni Battista Re – oggi decano del collegio cardinalizio – allora era un giovane collaboratore presso la nunziatura di Teheran. Ci ha raccontato che nell’ora che trascorse in aeroporto, oltre a Reza Pahlevi, Montini ebbe modo di rivolgere un breve saluto anche alla piccola comunità cattolica locale: «Disse due idee: la prima sulla finalità religiosa dei suoi viaggi, illustrando che erano una maniera di attuare il mandato di Cristo: “Andate e predicate”. La seconda fu l’invito ad essere testimoni dei valori cristiani e dello spirito cristiano in un Paese musulmano. Posso testimoniare che, nelle settimane successive, nelle poche chiese cattoliche (in Iran i cattolici erano allora 35.000 in tutto) non si parlava che di questo discorso».

Già in quella Teheran, dunque, ben prima dell’avvento dell’islam politico, Paolo VI aveva chiaro il tema del profilo della presenza cristiana in una società a stragrande maggioranza musulmana. E un’indicazione chiara su quale tipo di presenza coltivare l’avrebbe data lui stesso proprio al momento di ripartire da Teheran. Nella rotta verso Manila il suo aereo fece infatti un secondo scalo – questa volta non legato a un motivo tecnico – per farsi vicino alla popolazione di Dhaka, nell’allora Pakistan Orientale (oggi Bangladesh) colpita pochi giorni prima da un ciclone. Paolo VI vi si reca di notte per non intralciare i soccorsi, invita i cattolici di tutto il mondo alla solidarietà, conferma l’impegno di Caritas Internationalis lasciando una generosa offerta in denaro (alla quale invita a contribuire anche i giornalisti presenti sull’aereo).

Ma soprattutto nel saluto al presidente pakistano Yahia Khan dice che quella sua partecipazione al loro dolore «viene dal cuore, perché credo fermamente che noi siamo figli della stessa famiglia umana». È la via della fratellanza quella che a Dhaka Paolo VI indica nel rapporto tra cristiani e musulmani.

E lo ribadirà qualche giorno dopo anche a Giakarta dove – dopo aver esaltato il pancasila, la filosofia politica dei «cinque principi» su cui si fonda l’Indonesia moderna – ripeterà davanti ai musulmani le parole della dichiarazione conciliare Nostra Aetate: «La Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle religioni» e in particolare «guarda con stima ai musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente».

Lo scrivevano i Padri conciliari. Lo ripeteva Paolo VI a Teheran, Dhaka e Giakarta. Ed è la strada che la Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata l’anno scorso ad Abu Dhabi da Papa Francesco insieme all’imam di al Azhar al Tayyeb, continua a indicarci.