«Io resterei a casa». La lotta al Coronavirus nei campi profughi

«Io resterei a casa». La lotta al Coronavirus nei campi profughi

L’epidemia sta entrando in maniera sempre più allarmante anche nei Paesi dove si concentrano il numero più alto di rifugiati nel mondo. Cioè quelli che da casa loro sono stati costretti a scappare. Come sta già cambiando la vita a queste persone già provate dalla sofferenza?

 

L’epidemia del Coronavirus avanza in maniera molto preoccupante anche in Medio Oriente e in Grecia. E la notizia del giorno è l’allarme per il primo caso registrato a Lesbo, l’isola del Mediterraneo tristemente famosa per i campi dove vivono in condizioni difficilissime migliaia di profughi. Su alcuni siti qualcuno ha già colto l’occasione per far partire l’allarme sui migranti; anche se in realtà la paziente contagiata a Lesbo è una donna greca rientrata da un un viaggio in Israele (altro Paese del Medio Oriente alle prese oggi con il Coronavirus).

Al di là degli allarmismi, il problema dell’avvinarsi dell’epidemia ai campi di rifugiati è comunque molto serio. E riguarda soprattutto Paesi come l’Iraq, il Libano, la Giordania, l’Afghanistan dove in campi di fortuna vivono milioni di persone. A loro – che una casa vera e propria non ce l’hanno più – sarebbe un po’ un eufemismo ripetere lo slogan che circola tanto in queste ore in Italia.

Secondo le stime più aggiornate sono 70,8 milioni nel mondo le persone in fuga dai conflitti; messe insieme rappresentano un Paese più grande del nostro. Molto sono sfollati interni, cioè non hanno nemmeno lasciato il loro Paese, ma più di 20 milioni – ha ricordato oggi l’Unhcr – sono rifugiati e l’84% vivono in campi allestiti in Paesi a basso reddito. «A oggi non sono stati riportati casi di infezioni da Covid 19 tra rifugiati e richiedenti asilo – ha dichiarato oggi l’Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati Filippo Grandi -. Ma il virus può colpire chiunque ed è nostra responsabilità collettiva assicurare che la risposta globale includa anche queste persone». Per questo motivo l’Unhcr ha aperto un fondo di emergenza.

E i profughi come guardano al Coronavirus? Alcune testimonianze le ha raccolte qualche giorno fa Preemptive Love, una ong americana attiva tra i rifugiati in Iraq e in Siria. I loro operatori infatti si trovano già da giorni in campi in prima linea rispetto al focolaio iraniano, che sta facendo certamente molte più vittime rispetto a quelle dichiarate da Teheran. Anche nello stesso Iraq, poi, i casi stanno crescendo in tutte le province.

La prima conseguenza pratica per i profughi nei campi iracheni è stata la chiusura del confine con l’Iran; misura di sicurezza che tutela, ma allo stesso rappresenta un’ulteriore sofferenza; era dalle città iraniane, infatti, che arrivavano molti dei rifornimenti.

Poi anche qui c’è la chiusura delle scuole per evitare la diffusione del contagio. Una misura che certo è un disagio a ogni latitudine; provate, però, a pensare a che cosa può voler dire in un campo profughi dove la «casa» dove i ragazzi dovrebbero rimanere è un prefabbricato di pochi metri quadri. E dove andare a scuola era l’unica possibilità per vivere nella propria giornata almeno un momento di vita «normale».

«Anch’io sto molto attenta a tenere pulita la mia casa – ha raccontato una donna a Preemptive Love – ma sono lo stesso molto preoccupata. Fino a qualche giorno fa quasi tutti i giorni cercavo di procurarmi alimenti freschi al mercato per dare da mangiare prodotti sani ai miei figli. Adesso come faccio a fidarmi? Sto fuori il meno possibile, prendo solo cibo confezionato».

Storie di quotidiana resistenza al Coronavirus. Tra quelli per cui poter proteggersi restando sul divano di casa resta un miraggio molto lontano.

 

Foto: Ritzau Scanpiz / Unhcr