AL DI LA’ DEL MEKONG
Lo sguardo, appena sopra le mascherine

Lo sguardo, appena sopra le mascherine

Non credo alla retorica di chi dice «da questa storia ne usciremo migliori». O forse si, lo credo, ma solo se si è decisi a «lavorare a se stessi»

 

«Tu sei come una spugna,
assorbi il dolore di tutti»

Le guerre sono molto più devastanti del coronavirus. E nondimeno, per i bollettini serali con la conta dei morti o per lo strillare delle sirene sempre sottocasa, si ha la sensazione che in gioco c’è la vita, la morte, il destino di molti. Di tutti.

Claudio, 60 anni. «I volontari della Croce Rossa si sono chinati su di lui mentre stava steso sul letto, sotto a un dipinto della Vergine Maria. L’hanno portato via in ambulanza. Le sue nipoti, di tre e sei anni, l’hanno salutato dalla terrazza. Lui ha alzato lo sguardo verso di loro… Poi l’ambulanza se ne è andata e non si è sentito più nulla» (1). La vita, la morte, il destino, «sotto a un dipinto della Vergine Maria», come in quasi tutte le camere da letto dei nostri genitori.

Tante le persone strappate alle loro famiglie, in questi giorni prima della Pasqua. Salutate appena sull’uscio di casa, mentre venivano trasportate all’ospedale, poi mai più riviste. Medici e infermieri raccontano che si muore per soffocamento, soli, senza alcun contatto se non con lo sguardo. Una volta morti, si viene deposti nella bara e con i feretri di chi è già morto si sta in attesa. L’incombere di altri da dietro, prossimi a varcare la stessa soglia e la paura del contagio, imprimono una certa velocità e abitudine ai gesti del commiato, fino alla tumulazione o al trasporto su camion militari verso la cremazione.

Non credo alla retorica di chi dice, “da questa storia ne usciremo migliori”. O forse si, lo credo, ma solo se si è decisi a «lavorare a se stessi» (2), continuamente. «L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi – scriveva Etty Hillesum – è di prepararli fin da ora in noi stessi» (3). A cominciare dallo sguardo, appena sopra le mascherine.

In questi tempi di coronavirus non possiamo toccarci e a volte nemmeno parlarci. Dobbiamo fare tutto con gli occhi e con una tale intensità da dover caricare lo sguardo di tutto: di un abbraccio, di una carezza, di una parola d’amore e di conforto. Di tutto il bene che abbiamo dentro e che non possiamo esprimere se non con gli occhi. Penso ai malati più gravi, al limite della vita e della morte, intubati, soli. Sono “tutto occhi”, imploranti una compagnia che in quegli istanti può venire solo dallo sguardo di chi è accanto a loro. Benedico il Signore per l’abnegazione di tanti infermieri e medici il cui sguardo si è spinto fino al confine estremo della vita perché i nostri cari non morissero da soli. Benedico tutti coloro che hanno il grave compito di impreziosire con il loro sguardo le vite di tanti nostri cari ormai alla fine, e aprire loro, con la luminosità di quello stesso sguardo, le frontiere della vita eterna.

Sono convinto che “ne usciremo migliori” solo portandoci appresso e coltivando uno sguardo così. Dopo la “prima morte”, con o per coronavirus, temo anche una “seconda morte”, quella causata dalla crisi economica, dal non riuscire a far quadrare il bilancio di una vita spesso già segnata dalla precarietà economica e dalla malattia cronica. Eppure non dall’Europa soltanto, non dal metodo cinese, non dalle alchimie di governo, non dall’immissione di liquidità, ma dallo sguardo, da uno sguardo così luminoso, viene quel “ne usciremo migliori” di cui abbiamo bisogno.

Se per un istante ammettessimo di essere in “guerra”, allora vorrei invocare la presenza di un cappellano militare e del suo sguardo… che sappia cercare, come don Carlo Gnocchi, anche nel mezzo di un conflitto, «le vestigia di Cristo sulla terra» (4) e aprire solo con lo sguardo le frontiere della vita eterna. Se la vita, la morte, il destino non confinassero con il Mistero di Dio, se non fossero cioè le vestigia di Cristo sulla terra, non avrebbe senso parlarne.

« Anch’io ho sempre cercato le vestigia del Cristo sulla terra, con avida, insistente speranza – scrive don Carlo –. E mi era parso veder balenare il Suo sguardo negli occhi casti e ridenti dei bimbi – lembi di cielo mattutino e ventoso di primavera –… nel pallido e stanco sorriso dei vecchi, illuminato già dalla pace di remote e dolci regioni. Avevo cercato di cogliere l’accento della Sua voce nel discorso dolente e uguale dei poveri e degli afflitti e mi era sembrato che la Sua ombra leggera mi avesse sfiorato nel crepuscolo fatale dei morenti. Quegli occhi ansiosi di luce, quel viso solcato dal dolore, quell’affanno pesante del respiro, erano cose tanto “Sue”… Bisognava forse che suonasse l’ora della grande guerra … ». «Perché tocca alla morte rivelare profonde e arcane somiglianze», fino a scoprire d’istinto «i segni caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo percosso e denudato dal dolore».

Vorrei prendere questo sguardo, questo istinto, che come una spugna assorbe il dolore di tutti e traslarne la ricchezza in ogni ambito di vita. Ché divenga lo sguardo di chi insegna, di chi cura, di chi è padre e madre, di chi governa e specula in borsa o si perde nello schermo di una slot.

Così, solo così, anche «l’agonia (…) / ha la clemenza d’una mite aurora» (Ada Negri).

 

  1. Vale la pena leggere e conservare questo speciale del New York Times
  2. E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano 1996, 127.
  3. Idem, 179.
  4. Cfr. C. Gnocchi, Cristo con gli alpini, Milano 2003.