Africa: clima impazzito

Africa: clima impazzito

Cambiamenti climatici, ma non solo: povertà, sfruttamento, insicurezza, deforestazione… Tra inondazioni e siccità, l’Africa vive una grave crisi, ma il tema della cura della “casa comune” stenta ancora a farsi strada

Fratel Fabio Mussi, missionario del Pime, nella sua lunga esperienza d’Africa ne ha viste molte. Ma da quando vive nell’Estremo Nord del Camerun, dove è responsabile della Caritas di Yagoua, sembra che le emergenze non finiscano mai. Una gravissima siccità prima e devastanti inondazioni ora. Eventi estremi e sempre più frequenti che si vanno ad abbattere su una regione già molto povera e arretrata. Dove anche i terroristi di Boko Haram non cessano di fare incursioni e attacchi. «In un contesto di guerra e di insicurezza che si protraggono da oltre cinque anni – racconta fratel Fabio – le forti piogge fuori stagione degli ultimi tempi hanno provocato una nuova situazione di grave crisi».

La regione dell’Estremo Nord del Camerun è, nel suo piccolo, un emblema di molte altre aree dell’Africa che subiscono sempre di più i contraccolpi di un clima impazzito, ma anche le ripercussioni di una gestione sconsiderata delle risorse e il proliferare di situazioni di insicurezza.

E come in una spirale autodistruttiva, spesso gli uni si nutrono degli altri, andando ad alimentare situazioni di grave vulnerabilità. Dove a pagare, in un modo o nell’altro, sono sempre i più deboli.

In tutto il continente, sarebbero oltre 52 milioni le persone a rischio-fame a causa delle ripercussioni dei cambiamenti del clima aggravati dall’insicurezza; e oltre 2,6 milioni sono i profughi climatici che nel 2019 si sono aggiunti ai quasi 8 milioni di persone in fuga dai conflitti.

Eppure, il tema dei cambiamenti climatici fatica ancora a entrare nelle agende politiche dei leader africani (e non solo). E anche della Chiesa d’Africa. La Laudato Si’ di Papa Francesco sta penetrando nel continente in modo molto sommesso, essendo la sensibilità per la “casa comune” ancora molto scarsa. Non di tutti, però.

Il cardinale Fridolin Ambongo, arcivescovo di Kinshasa, in Repubblica Democratica del Congo, partecipando ai lavori del Sinodo per l’Amazzonia, è stato molto esplicito: «La Chiesa ha il dovere di aiutare a promuovere un’ecologia integrale. È “responsabilità” globale: o lo comprendiamo o ci autodistruggeremo. Siamo tutti responsabili, anche se alcuni più di altri: i governi, le grande aziende, le potenze occidentali e la Cina, molto presente in Africa».

In passato, il cardinale è stato anche presidente della Commissione per le risorse naturali e ha ricevuto minacce di morte per le denunce dello sfruttamento delle risorse e delle aree forestali del suo Paese. Queste ultime, lo scorso anno, sono state gravemente danneggiate da imponenti incendi: 6.900 in Angola e 3.400 in R.D. Congo. Più vasti e devastanti di quelli che hanno colpito l’Amazzonia. Eppure di quanto successo alla foresta pluviale africana si è detto poco o nulla. «L’Amazzonia e il bacino del Congo sono i due polmoni dell’umanità – insiste il cardinale Ambongo -. E questi polmoni stanno sanguinando. Ma il problema non è solo l’ambiente, la biodiversità e lo sfruttamento. Occorre prestare molta attenzione ai popoli della foresta e offrire loro condizioni di vita degne senza mettere in pericolo la “casa comune”. In questo senso, anche noi, come Chiesa, abbiamo un grande lavoro da fare soprattutto in termini di sensibilizzazione».

Nel 2015, le Chiese di 6 Paesi (Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Congo e Guinea Equatoriale), facenti parte del bacino del Congo (un’area di 3,3 milioni di chilometri quadrati), hanno dato vita a una Rete ecclesiale (Rebac) sul modello della Rete Panamazzonica (Repam). Ma l’efficacia è alquanto modesta. «I temi ambientali – ammette il cardinale – non sono al cuore delle preoccupazioni dei nostri leader e neppure dei media.  Brucia una foresta, c’è un’inondazione, magari anche dei morti, ma nessuno dice niente».

Non molto diversamente, la situazione della Repubblica Centrafricana così come quella del Sud Sudan la dicono lunga anche sul silenzio colpevole della comunità internazionale. Fiaccati da interminabili crisi politiche e guerre striscianti, entrambi i Paesi si ritrovano a fare i conti con fenomeni atmosferici straordinariamente catastrofici.

In Sud Sudan, quasi un milione di persone sono state colpite dalle alluvioni: più della metà sono bambini. Interi villaggi sono stati sommersi dalle piogge torrenziali, che hanno distrutto anche pozzi, scuole e strutture sanitarie in un Paese che è tra i più poveri al mondo e che – dopo una lunga guerra con il Nord e una brevissima parentesi di pace a ridosso dell’indipendenza del 2011 – è di nuovo sprofondato in un conflitto civile che stenta a risolversi nonostante gli accordi di pace.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, «le piogge stagionali inusualmente forti hanno devastato vaste aree del Sud Sudan, colpendo circa 900 mila chilometri quadrati. Nelle 32 contee alluvionate negli Stati di Jonglei, Upper Nile, Warrap, Eastern Equatoria, Northern Bahr el Ghazal, Unity e Lakes, più di 3 milioni di persone erano bisognose di assistenza ancor prima dell’inizio delle piogge». Solo nella diocesi di Malakal, la più vasta del Paese, sarebbero stati sommersi 238 mila chilometri quadrati, secondo la testimonianza del vescovo, mons. Stephen Nyodho Ador Majwok.

Anche in Kenya sono morte una trentina di persone a causa delle alluvioni che hanno colpito 25 contee del Paese, tra le quali alcune tradizionalmente segnate da situazioni di siccità, come Marsabit, Turkana o Wajir. La Caritas locale ha lanciato un appello per la raccolta di fondi, cibo e generi di prima necessità per aiutare le popolazioni colpite.

In Somalia ci sono state decine di morti e molti villaggi completamente devastati così come campi, strade e altre infrastrutture.

In Repubblica Centrafricana, l’esondazione del fiume Oubangui ha distrutto migliaia di abitazioni e lasciato moltissime famiglie senza tetto. Un’ennesima crisi umanitaria che si aggiunge alla crisi militare-politica in atto nel Paese. La capitale Bangui e la città di Bimbo sono state particolarmente colpite. Ma questa piena inedita ha avuto ripercussioni pesantissime lungo tutti i 600 chilometri del fiume, dove la maggior parte dei villaggi sono stati inondati ed evacuati. E le ripercussioni si sono fatte sentire persino nei Paesi limitrofi come Camerun e Repubblica Demo-
cratica del Congo.

Intanto, l’Africa australe – squassata lo scorso anno dai terribili cicloni Idai e Kennedy (particolarmente devastanti in Mozam-
bico, Zambia e Zimbabwe) – sta conoscendo ora una delle peggiori siccità mai viste. Secondo le Nazioni Unite, 45 milioni di persone dovranno far fronte a una situazione di grave insicurezza alimentare nei 16 Paesi che compongono la Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc); più di 11 milioni sono già a grave rischio in 9 Paesi (Angola , Zimbabwe, Mozambico, Zambia, Mada-
gascar, Malawi, Namibia, Swaziland e Lesotho). Il Fondo per l’Agricoltura (Fao), il Programma alimentare mondiale (Pam) e il Fondo per lo sviluppo agricolo (Ifad) hanno lanciato insieme l’allarme per «evitare una grave crisi alimentare», ma anche perché «si investa a lungo termine per combattere gli impatti degli shock climatici e per sviluppare la capacità delle comunità e dei Paesi di resistere».

«È la peggiore siccità degli ultimi 35 anni  – ha dichiarato la direttrice regionale ad interim del Pam per questa regione, Margaret Malu -. Dobbiamo soddisfare le urgenti esigenze alimentari e nutrizionali di milioni di persone, ma anche investire nella costruzione della resilienza di coloro che sono minacciati da siccità, inondazioni e tempeste sempre più frequenti e gravi».

Questa persistente siccità arriva dopo un periodo di cicloni e inondazioni che hanno completamente devastato le colture, provocando anche un aumento dei prezzi dei prodotti. E così, non solo le comunità rurali ma anche gli abitanti delle città hanno grandi difficoltà a procurarsi il cibo.

Secondo il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), le temperature nell’Africa meridionale stanno aumentando due volte più velocemente rispetto alla media globale. «In una regione così soggetta a shock e alti tassi di fame cronica, disuguaglianza e povertà strutturale – sottolinea Robson Mutandi, direttore di Ifad-Africa meridionale – il cambiamento climatico è un problema urgente che deve essere affrontato con urgenza».

«Papa Francesco – interviene il gesuita Agbonkhianmeghe Orobato, teologo nigeriano – ha fatto un chiaro appello nella Laudato Si’ affinché ci assumiamo la nostra responsabilità di cura e protezione della terra. In quest’epoca, l’autentico credente è colui che accetta la responsabilità di prendersi cura della nostra “casa comune”. Questa è una nuova frontiera per il cristianesimo in Africa e altrove».