Libano, soldati senza armi

Libano, soldati senza armi

Durante la guerra civile, Assaad Chaftari era al vertice delle milizie cristiane. Oggi, con altri ex combattenti, lotta per la riconciliazione

Lo scorso ottobre, quando scontri a fuoco tra fazioni cristiane e sciite sono scoppiati proprio nel centro di Beirut, provocando sei vittime e decine di feriti, i fantasmi della guerra civile sono tornati ad aleggiare, più pesanti che mai, su un Paese oggi messo in ginocchio da una spaventosa crisi economica, sanitaria, politica.

Il Libano, in realtà, è assestato su un equilibrio fortemente precario e le tensioni settarie – che oggi fanno più paura a causa di un contesto sociale esasperato dalla povertà – riemergono periodicamente da quando gli accordi di Taif del 1989 posero fine a quindici anni di conflitto devastante. 

«In questi decenni noi libanesi abbiamo sbagliato molte cose. Dopo la guerra non abbiamo avuto il coraggio di sederci intorno a un tavolo per guardare insieme che cosa era successo, dire chi era stato responsabile di cosa, chiedere scusa per i nostri errori e perdonare quelli degli altri. Non c’è mai stato un processo di guarigione dei traumi vissuti». Assaad Chaftari sa bene di cosa parla. Cristiano maronita cresciuto in un quartiere francofono di Beirut, da giovanissimo si avvicinò alla milizia armata legata al partito falangista, fino a diventare il responsabile del suo servizio di intelligence. Furono anni di violenze e massacri, che Chaftari vedeva come «un male necessario per salvare il Libano cristiano e il nostro modo di vivere: sentivo di combattere per una causa sacra». 

È proprio perché conosce la forza perversa delle ideologie che oggi questo ingegnere 66enne, passato attraverso un lungo percorso di coscienza e redenzione, ha deciso di dedicare la sua vita a testimoniare l’orrore della guerra. Insieme ad altri ex combattenti appartenenti a opposte fazioni ha dato vita alla ong Fighters for peace, di cui è presidente, per «contrastare le narrazioni basate sull’odio, sull’intolleranza, sulla paura dell’altro che ancora dominano la scena politica, i media e tutti i settori della società, compreso quello educativo», spiega.

Come è diventato, da ragazzo, un miliziano pronto a imbracciare le armi?
«All’inizio degli anni Settanta, di fronte alla pressione dei militanti palestinesi che in Libano erano sostenuti dai musulmani, noi cristiani eravamo convinti che nessuno ci avrebbe tutelati e che quindi la lotta armata fosse giustificata per proteggere la presenza della cristianità nel Paese e nell’intero Medio Oriente. Secondo questa logica, fu relativamente semplice per noi identificare un’intera comunità come “il nemico”. Io da ragazzo avevo compagni di scuola di religione islamica con cui avevo un buon rapporto, ma mi convincevo che i “veri musulmani” fossero quelli di cui sentivo parlare in tv o nei discorsi dei politici, di cui si diceva che preferissero il modello dei Paesi arabi rispetto all’Occidente. Per questo sostengo che una guerra civile non inizia con il primo proiettile sparato, ma con la prima idea falsa sull’altro che qualcuno ti insinua nella testa».

Per anni continuò ad avallare la violenza senza ripensamenti: quando le cose cambiarono?
«Nel 1985 partecipai ai negoziati per l’Accordo tripartito tra un settore delle forze cristiane, gli sciiti di Nabih Berri e i drusi di Walid Jumblat, ma la fazione cristiana opposta lo rifiutò, sostenendo che avevamo concesso troppo ai musulmani: ci diedero dei traditori e io e la mia famiglia – durante la guerra mi ero sposato e avevo avuto un figlio – fummo costretti a lasciare Beirut per Zahlé, nella valle della Bekaa. Fu lì che incontrai un gruppo, guidato dal vescovo maronita George Iskandar, in cui persone di diverse religioni partecipavano a un cammino di verifica interiore, confrontando la propria vita con una serie di valori morali. Accettai di coinvolgermi in quel percorso e questo mi portò a guardarmi in un certo senso allo specchio per la prima volta: quello che vidi fu un assassino, con le mani sporche di sangue».

E che cosa decise di fare?
«Cominciai a partecipare a momenti di dialogo durante i quali conobbi di persona diversi musulmani: palestinesi, siriani… Scoprii che quello che avevo sentito su di loro non era vero, imparai ad ascoltarli e mi accorsi con mia grande sorpresa che anche loro avevano idee valide da condividere. Iniziai a chiamarli per nome, pian piano accettai di impegnarmi con loro e persino di voler loro bene: alla fine questi “altri” scomparvero: all’improvviso eravamo tutti esseri umani». 

Quando scelse di prendere posizione pubblicamente?
«La guerra era finita e la vita era, in qualche modo, ricominciata normalmente. Ma un giorno – era il 2000 – sentii un amico di mio figlio che diceva di detestare i musulmani, tanto che quando passava vicino a una moschea gli veniva da vomitare. Fu uno shock. Mi resi conto che la nuova generazione stava ripetendo i nostri stessi errori e pensai che, se non avessimo dato ai giovani un messaggio diverso, la storia avrebbe potuto ripetersi. E così scrissi una lettera aperta, che ebbe molta risonanza sui media, in cui chiedevo perdono per il male commesso e perdonavo chi ne aveva fatto a me e alla mia comunità».

Come è nata la ong Fighters for peace?
«Nel mio percorso personale avevo incontrato molti altri ex combattenti, appartenenti a fazioni diverse durante la guerra civile, che attraverso vie differenti erano arrivati alla mia stessa conclusione e avvertivano con urgenza la responsabilità di raccontare la verità sull’orrore della guerra e sull’inganno delle visioni settarie. Così decidemmo di unirci e nel 2014 fondammo quest’associazione attraverso cui organizziamo iniziative, come lezioni nelle scuole o weekend residenziali, per promuovere un cammino di verità, giustizia e riconciliazione. I libri scolastici libanesi si fermano al racconto dell’indipendenza e non riportano una riga sugli anni del conflitto civile. Ma senza memoria non si può costruire il futuro».

Servirebbe una storia condivisa?
«Ognuno dovrebbe poter raccontare la sua versione dei fatti e tutti dovrebbero poter conoscere il punto di vista dell’altro. Gli stessi insegnanti, così come i leader religiosi, dovrebbero poter superare il proprio trauma per trasmettere ai giovani una visione di pace. Noi ex combattenti cerchiamo di influenzare il discorso politico e il racconto dei media, che rilanciano la paura dell’altro. Siamo una voce isolata, ma la nostra speranza è che se i ragazzi l’avranno sentita anche una sola volta magari, di fronte alla violenza, almeno esiteranno per un momento. Già questo sarebbe un grande risultato».